Middlesex

Dopo almeno sei anni che lo vedevo girare sulle scrivanie e nelle borse degli amici, sono riuscito a leggere Middlesex di Jeffrey Eugenides, e a capire perché avrei dovuto leggerlo prima. Ma ogni libro arriva quando è il suo (e nostro) momento.

Se devo dare una colpa per questo ritardo, punterò il dito contro la copertina. Sì, sto parlando di te, Oscar Mondadori. Perché mai questa immagine in copertina?

Perché Middlesex è bello. Una bella storia, scritta bene (da un premio Pulitzer, direte “bella scoperta”). Sono un occasionale divoratore di libri, ma non mi capita tanto spesso di leggere 602 pagine in meno di 12 ore. Eppure così ho fatto, complice un lunghissimo viaggio dall’aeroporto di Heraklion a Marzano ai primi di agosto. Forse essere in viaggio aiuta a far scorrere questa storia di tre generazioni che inizia nel 1922 in Asia Minore. Forse aiuta essere in Grecia, anche se in Middlesex si capisce a fondo la differenza tra stato e nazione (così difficile da concepire per un italiano).

La prima parte è forse quella che mi ha catturato di più, perché nonostante tutto conosco così poco del 1922, delle guerre e delle deportazioni e delle persone che le hanno vissute. Si potrebbe dire: non ti basta la storia d’Italia? Non potresti interessarti dell’Istria? Sì, potrei. Ma negli ultimi 7 anni è in Grecia che ho passato sempre più tempo, che ho imparato piano piano a conoscere i posti, a riconoscere le parole ascoltate per strada. A capire la differenza tra il prima e il dopo le deportazioni di massa. Atene è diventata una città, dopo il 1922, per dire.

Dopo ci sono storie che attraversano un secolo o quasi di storia americana, ma anche quella esce fuori poco alla volta. I genitori di Cal sono ancora degli immigrati, pur essendo nati a Detroit. Forse è proprio questo uno dei tratti distintivi della società statunitense raccontata da Eugenides, dove i personaggi sono gli immigrati, quelli che faticano a trovare un posto che sia il loro, che sono costretti a cambiare e a fare i conti con il cambiamento, fino all’ultimo. Come Cal.

Tutto il libro è incredibile per la (paranoica?) attenzione ai particolari, che però scorre tranquilla, senza momenti di assurdo dettaglio. Non c’è nessuna sospensione del giudizio lì a fare capolino, perché è tutto storicamente e umanamente autentico, forse anche perché Eugenides ha sempre un tratto fortemente autobiografico (questo ovviamente si scopre leggendo la sua biografia). Il mio metro di valutazione è labile: conosco poco e niente la letteratura contemporanea a stelle e strisce, se escludo letture comunque inorganiche di Paul Auster e altri scrittori. Poi uno scrittore che in 18 anni ha pubblicato 3 romanzi si lascia comunque apprezzare: mal che vada il tempo perso non è moltissimo. Accidenti alla copertina, sono appena in tempo per leggere il nuovo romanzo di Eugenides.


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