Caro Mario Calabresi…

… poiché nel suo articolo di oggi ha (come direbbe il presidente del Consiglio) rovesciato la frittata invece che affrontare il problema, voglio fare un tentativo di spiegarmi, di capire.

Il problema è ovviamente l’articolo di Gianni Riotta pubblicato ieri da La Stampa. Mi limito all’articolo perché, netiquette (e/o buonsenso) alla mano, quello che è avvenuto dopo la pubblicazione è stato semplicemente penoso.

Lei scrive che Glenn Greenwald avrebbe torto, poiché ha accusato l’articolo in questione di essere una rara collezione di bugie senza però indicare nello specifico quali siano queste bugie. Siccome sono un groupie, provo ad addentrarmi in alcune di queste bugie, per vedere quanto è difficile riconoscerle da soli anche senza i segni della matita rossa.

Primo. Scrivete che Greenwald accusa Riotta e La Stampa. In realtà sono Riotta e La Stampa che hanno accusato Greenwald di: essere un attivista e non un giornalista; non verificare le proprie fonti; non trattare le fonti in modo responsabile; essere asservito al potere economico di eBay (avendo perdipiù la doppia morale). Evitando la retorica del “ma avete letto bene quello che ha scritto Riotta”, se siete disposti a negare che quell’editoriale contenesse delle accuse dirette, pesanti e prive di fondamento c’è qualcosa che non va, qualcosa di infantile. Il suo editoriale di oggi cerca di salvare capra e cavoli citando ampi stralci di un precedente editoriale, ma non convince, proprio perché di “fatti che non ci piacciono” nell’articolo di Riotta non ne troviamo. Meno male che ci sono altri editorialisti più competenti, anche senza cambiare quotidiano.

Secondo. Se in un articolo che parla di Greenwald e (indirettamente) di Snowden possiamo tranquillamente leggere il nome di Putin e addirittura del Kgb, oltre che di eBay, non vedo perché non si possa, per esempio, parlare di Riotta e de La Stampa citando anche Marchionne e la Chrysler. Ma preferirei una Informazione pertinente.

Terzo, importante. Riotta che accomuna lo spionaggio preventivo e indiscriminato da parte della NSA alla raccolta di dati da parte delle società private come Facebook, Google etc. è veramente il punto più basso dei contenuti dell’articolo. L’associazione tra le due attività è non solo falsa, ma perniciosa a più livelli. Anzitutto l’attività di raccolta dati dei grandi player privati è sempre stata del tutto nota, esplicita e regolamentata ‒ mentre i programmi di spionaggio della NSA sono illegali, non a detta di un ingenuo groupie ma di tanti cittadini, organizzazioni e imprese statunitensi che non vogliono né essere spiati né avere la colpa di spiare il resto del mondo. Il fatto che la maggior parte degli utenti dei social network (e di eBay, Amazon, etc.) tolleri passivamente l’attività di data mining condotta su di loro non rende questo fenomeno un buon metro di paragone. Anche se il mio supermercato conosce le mie abitudini alimentari tramite la mitica tessera fedeltà, questo non è un buon motivo perché qualcun altro inizi a spiare nelle mie borse della spesa per scoprire le stesse informazioni, che sia un altro supermercato, una agenzia dello Stato o il mio vicino di casa. Da parte di un giornalista che inserisce “Big Data” all’inizio del suo profilo Twitter, è lecito aspettarsi meno pressapochismo e informazioni corrette.

Quarto, breve. Il “Far West” si trova negli Stati Uniti d’America, in cui il direttore della NSA si sente libero di testimoniare il falso di fronte al Congresso, perpetrando la totale assenza di controllo sulle proprie attività.

Quinto, finale. Abbiamo scoperto una brutta storia grazie a Snowden, Greenwald, il Guardian e tanti professionisti dell’informazione giornalistica. Se la morale della storia è che le agenzie di sicurezza dei “buoni” devono coordinarsi meglio tra loro invece che spiarsi a vicenda, e noi cittadini possiamo anche subire in silenzio la sorveglianza ‒ un po’ come facciamo con le file al controllo bagagli (fastidiose, dichiaratamente inutili quanto le telecamere in strada, con buona pace di Riotta), non resta che ringraziare il signor Pierre Omidyar, preparandoci a criticarlo come un qualunque altro proprietario di mass media.


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