Archeologia due punto zero

Appunti cartacei del sedici dicembre duemiladodici, in treno verso Genova e poi Roma e poi Paestum.

Può darsi che qualche volta ci sia cascato anche io, ma su due piedi non ricordo di avere mai parlato o scritto di “archeologia 2.0”. A ogni modo, oggi ho deciso di scrivervi per dirvi quello che ne penso.

L’archeologia 2.0 non esiste. Nel migliore dei casi, l’espressione è una crasi di archeologia e web 2.0. Ma c’è una bella differenza (pensate ad “archeocolonialismo” oppure “archeologia e colonialismo”) e credo non per caso nel febbraio 2011 il seminario organizzato a Siena si chiamava “Lo scavo e il web 2.0”. Ora non voglio andare contro chi ha usato questa espressione (fino a renderla il titolo di un fortunato blog), perché intendo questa riflessione anzitutto come autocritica. All’estero si studia già da qualche tempo in modo critico l’uso, l’abuso e la fascinazione morbosa dei social network nella pratica archeologica (Lorna Richardson, Dr. Web-Love). Qui forse siamo ancora alla fascinazione.

Inizio con 2 parole sul “2.0”. Nell’industria del software si usa la pratica ingegneristica di numerare le versioni che vengono rilasciate. La prima versione è (era) tipicamente la 1.0. La versione 2.0 è quindi diventata per antonomasia la “prossima”, quella “migliore di sempre” rispetto alla quale la precedente diventa obsoleta, non supportata e imbarazzante. Ci sono nuove funzioni, una migliore usabilità, etc. La trasposizione di “2.0” come aggettivo del web ha degli specifici diversi (social, user-generated content, cloud) ma permane il concetto di “rivoluzionario miglioramento”.

Non vedo rivoluzionari miglioramenti nell’archeologia, e in quella italiana in particolare. Ne ho sentito parlare, questo sì, e abbiamo avuto varie rivoluzioni annunciate, ma dopo l’annuncio niente. Forse c’è stata un po’ di confusione in un periodo (transitorio, come tanti periodi) in cui erano/eravamo in pochi a usare il web 2.0 per comunicare l’archeologia, e si è avuta l’impressione di fare la rivoluzione solo perché si usavano degli strumenti nuovi, un po’ come abbiamo fatto con il software libero (l’ho scritto all’inizio che era soprattutto autocritica). Il fatto è che l’archeologia pubblica esiste da molti decenni e da sempre ha usato i mezzi di comunicazione esistenti. Forse abbiamo assistito a un rovesciamento delle credenze popolari sugli Etruschi, sulla caduta dell’Impero Romano, sulla vita rurale nel Basso Medioevo? Abbiamo sovvertito qualcosa usando il web 2.0? Di nuovo, non mi sembra. Ma forse sto attaccandomi a dei dettagli senza andare al cuore del problema.

Magari “archeologia 2.0” è solo wishful thinking, ché sarebbe bello davvero riscrivere da capo il nostro codice e aggiornare a una nuova versione del software, dove possiamo dimenticare l’egemonia culturale dell’Università (non delle università) verso i professionisti, smettere di attaccarsi all’articolo 9 della Costituzione per difendere in realtà i diritti dei lavoratori della cultura, accettare che la cultura è di elite, rifiutare che le elite siano chiuse e poi finirla di raccontare al pubblico un passato sempre edificante, lineare. Questo elenco è destinato a essere un campionamento casuale delle tante, troppe cose che non vanno nell’archeologia italiana.

Intorno al 2006 ho detto e scritto che le rivendicazioni di specificità dell’archeologia nei confronti dell’informatica erano barzellette, perché saremo sempre costretti a usare quello che la società nel suo complesso usa. Siamo troppo pochi, troppo piccoli per essere noi a cambiare le cose. Nessun archeologo si vanta di usare l’automobile, ma quasi tutti lo fanno, quindi … Archeologia motorizzata! Ve lo immaginate? Per un breve periodo c’è stato eccitamento per la fotografia digitale (e il web 2.0 ci permette di vedere innumerevoli foto brutte, e poche foto belle che rendono ancora più brutte tutte le altre, in attesa di usare direttamente Instagram per le foto dei reperti). Ora che da qualche mese mio padre ha un account Twitter, posso mettere nel cassetto anche questa pagina della nostra gloriosa rivoluzione digitale. Eh sì, perché il punto è proprio quello, tra 2-3 anni il 2.0 sarà talmente banale…

Non c’è niente di sbagliato nel “lasciare la porta aperta” sul proprio cantiere di scavo, ma qualcuno ha davvero il tempo di seguire una ricerca senza prendervi parte, tornando a recitare il ruolo di quel “pubblico a casa”, così fuori luogo nell’epoca della partecipazione?

Da una archeologia 2.0 mi aspetto almeno che abbia perso un po’ dell’innocenza accumulata indebitamente.


Commenti

14 risposte a “Archeologia due punto zero”

  1. Per me Archeologia 2.0 ha un significato sociale (per questo lo considero mutuato dalla logica di condivisione generata dai social network),legato soprattutto ad una speranza: quella di un’archeologia più collaborativa, meno individualistica e proprietaria, non nel senso di software, ma di condivisione di dati, e aggiornata sulla realta’ del mondo archeologico italiano, quindi non più fossilizzata sul vecchio dualismo MiBAC – Universita’, bensi’ consapevole dell’importanza non solo numerica, ma anche scientifica dei professionisti. In pratica, Archeologia 2.0 non e’ la migliore delle archeologie, ne la sola archeologia digitale, ma un cambiamento nella mentalita’ degli archeologi, cioe’ per usare un facile slogan open mind.

  2. D’altronde ormai l’aggettivo ‘sociale’ è quotidianamente associato solo ai network di comunicazione, e ha perso la più nobile connotazione di ‘riferito alla società’ o di ‘partecipazione’. Facile di conseguenza parlare di 2.0 come sinonimo di ‘nuovo’, spacciando una superficiale mano di bianco con una innovazione profonda che è invece tutta ancora da costruire! (http://www.passatoefuturo.com/2012/11/amistad.html)

  3. Avatar Stefano Costa
    Stefano Costa

    Grazie Gabriele e Giuliano ‒ Gabriele sa che ho detto alcune di queste cose a Paestum, ed è in arrivo una versione estesa del mio intervento che spero serva a proseguire la discussione. Uno degli ingredienti secondo me è quello di iniziare ad avere dei blog che esprimano opinioni invece che riportare solo notizie. Giuliano ha il merito di aver iniziato ‒ in grande ‒ con Passato & Futuro. Qui cerco di fare la mia parte. Altrimenti il web 2.0 rimane solo un megafono per urlare a tutto il mondo quanto siamo bravi (come se poi qualcuno ci ascoltasse davvero).

  4. Interesting post, not sure it translated perfectly in Google translate- and I am not sure if it is being critical towards my work or not – but I agree absolutely with your sentiments towards the revolutionary potential of these technologies. Would love to discuss more with you

  5. Avatar Stefano Costa
    Stefano Costa

    Lorna, thanks for taking the time to go through the post and the translation. I checked it on Google Translate too and it is quite funny actually, and I am not sure you could follow all passages. I was referring to your work as a source of inspiration, and I can subscribe many of the points you made in So Why Didn’t the World of Public Archaeology Change in 2008?. We have had in Italy lots of excitement by a small group of people, rather than a widespread adoption and a much-necessary critical approach, not to speak of evaluating results, benefits and problems.

    The baseline is: web 2.0 alone is not and can not be a revolution for archaeology.

  6. Assolutamente d’accordo (e con l’occasione, grazie per la citazione). Nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, l’archeologia ha semplicemente integrato – se non sostituito – il suo mezzo di comunicazione con il pubblico. Bisogna ammettere che l’uso dei social media e una presenza più costante ha evidenziato meglio certe carenze (come anche le eccellenze). Ma è chiaro che l’archeologia non ha ancora approfondito le potenzialità di una partecipazione dell’utente finale; a differenza dei musei, che spesso hanno colto con più attenzione queste risorse. Sono dell’idea che una struttura wiki sia il vero futuro della ricerca accademica, e presto penso il concetto di pubblicazione finale di uno scavo sarà sempre più sottile: semplificheremo il processo di acquisizione dei dati e ci potremo concentrare sulla sua interpretazione. Così da lavorare ad una divulgazione più efficace con la partecipazione del pubblico.

  7. Il “rivoluzionario miglioramento” dovrebbe avvenire nelle mentalità, anzi nella Mentalità che è punto di arrivo e punto di partenza del nostro lavoro.
    Se vogliamo fare la nostra parte, ci vuole innanzitutto, però, dialogo tra noi, scambio, contatti, interazione. Da un po’ vado in giro dicendo che siamo tante isole in un grande mare, e noto con piacere che proprio l’uso dei social network sta facendo sì che almeno tra di noi parliamo e discutiamo (seppure molto timidamente ancora). Lo so, Stefano, siamo sempre indietro anni luce rispetto a quanto avviene Oltremanica: fa parte della storia della nostra archeologia, ormai cristallizzato da decenni, per cui amiamo crogiolarci nell’abbondanza di “archeologia” che abbiamo senza pensare a come farla fruttare di più e a come lavorare meglio noi con essa. Tuttavia vedo all’orizzonte timidi cenni di cambiamenti di rotta. Sarà sempre troppo poco, e non lo metto in dubbio, ma preferisco guardare con ottimismo a questo “troppo poco” che con disfattismo alla palude – se così la vogliamo definire – che ancora ci avvolge.

  8. Avatar Stefano Costa
    Stefano Costa

    Grazie Marina! Non mi preoccupa tanto essere indietro anni luce (in qualche modo è un topos letterario anche quello) quanto sprecare energie. Come hai scritto in modo molto lucido in L’archeologia nel web 2.0. Se non sei in rete sei fuori!, ad oggi l’attività di comunicazione archeologica è quasi sempre non pagata, anche per te che hai 5 anni di esperienza in questo ambito. Quindi onestamente a chi intende investire sulla comunicazione (non solo tramite i social media, ma in generale) ho detto e continuo a dire “Attenzione” perché se è in seria difficoltà la figura dell’archeolog[a|o] “normale” (la scavatrice, il ricognitore, quella gente lì) non vedo come possa essere agevolato chi rielabora quel lavoro di base a vantaggio del pubblico, specialmente se intende fare solo quello. Lo ha scritto la settimana scorsa in modo lapidario Colleen Morgan su Middle Savagery (uno dei blog più belli che ho il piacere di leggere) e non so trovare parole migliori delle sue:

    A better archaeology is a participatory, multivocal, craft-based archaeology that recognizes the value of both dirt and digital archaeologists.

    Ottimismo: ci sto. Ho aggiunto qualche giorno fa un piccolo elenco di “Blog di archeologia” a lato di queste pagine. Sono i blog italiani di archeologia che mi ispirano, con cui credo di avere un dialogo. Mi piacerebbe aggiungerne altri, con il tempo. Con il tempo.

  9. Anch’io credo molto nei wiki per la ricerca, credo che sia un campo nel quale iniziare a sperimentare in maniera creativa. Il primo passo per avvicinare gli archeologi ai wiki dovrebbe essere quello di usarli in maniera massiccia direttamente sugli scavi, aggiornando via via pensieri ed interpretazione, una specie di diario di scavo sempre aggiornato e aggiornabile,, condiviso tra tutto il gruppo di ricerca, fatto questo sarebbe mentalmente più facile passare ad una collaborazione esterna.

  10. La butto lì, perché non si fa un blog archeologico collettivo, un Wu Ming dell’archeologia?

  11. Avatar Stefano Costa
    Stefano Costa

    Questo purtroppo è vero fino a un certo punto. Usiamo http://www.gortinabizantina.it/wiki/ dal 2006, ed è un ambiente effettivamente ottimo per i motivi che elenchi tu (anche se il wiki non è senza problemi, ne parlavo lo scorso anno nel seminario citato all’inizio del post). Ho in mente da qualche tempo un post in cui si mettano a confronto i diversi modi in cui un gruppo di ricerca rende accessibili le informazioni ai propri componenti e questo è certamente un caso di estrema accessibilità.

    Purtroppo, come puoi verificare tu stesso, di quel wiki bellissimo tu puoi consultare solo la prima pagina e tutte le altre sono inaccessibili. Ci sono tanti motivi, alcuni più validi, altri secondo me non tanto. Prima o poi spero che quel wiki possa aprire le sue porte.

    Per chi è alle prime armi l’idea di collaborare a porte chiuse può essere più rassicurante, ma può anche essere l’inizio di una vita intera passata “a porte chiuse”. C’è anche una questione di linguaggi e registri. È tutto da studiare. Sempre che nel 2012 ci possiamo ancora concedere il lusso della riflessione metodologica…

  12. Allora facciamolo il blog collettivo. Con molti di voi ci stiamo ragionando da un po’, pur per intervalla insaniae …
    Io credo davvero che il futuro si costruisca così, ponendoci degli obiettivi concreti, con i nostri principi ben saldi in testa.
    Lavoriamo insieme a una archeologia sostenibile:
    http://www.passatoefuturo.com/2012/12/il-gattopardo.html

    perché da troppo tempo la metodologia è una pratica elitaria, con tanta tecnica e poca anima.

  13. Quello che viene considerato un lusso è in realtà un necessità, se non un imperativo, la riflessione metodologica è stata spesso confusa con riflessione tecnologica con il risultato di essere rimasti fermi da almeno 20 anni…

  14. […] iniziato con una domanda che mi pongo da qualche tempo, riassunta […]

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