Autore: Stefano Costa

  • I libri che ho letto nel 2020

    Anche quest’anno niente classifiche e niente recensioni ‒ solo qualche commento. Lo sapete tutti, il 2020 è stato segnato dalla pandemia e come tanti ho passato molto più tempo senza poter uscire. Ho letto un po’ più dello scorso anno, per quel che conta la quantità.

    Michele Ainis, Demofollia

    Una raccolta di saggi, complessivamente un po’ ripetitiva ma visto che uno dei temi ricorrenti è quello della burocrazia è anche una lettura doverosa. Nel libro e anche nell’introduzione Ainis porta l’esempio paradossale del Ministero dei Beni Culturali che ha cambiato nome tre volte in pochi anni. Ebbene, dopo la pubblicazione del libro è cambiato di nuovo. E all’inizio del 2021 è cambiato di nuovo. Cinque volte.

    Matteo Vinzoni, Pianta delle due riviere della serenissima Repubblica di Genova divise ne’ commissariati di sanità (a cura di Massimo Quaini)

    Questa è una lettura, sì. Come molti ho consultato decine di volte la Pianta e i suoi disegni, ma non sapevo che fosse accompagnata da un testo descrittivo molto articolato. L’edizione maestra curata dal grande Massimo Quaini ha una lunga introduzione al testo che racconta la storia di Matteo Vinzoni, di come è diventato uno dei più grandi cartografi della sua epoca e della fatica interminabile che gli è costata questa Pianta. E la cosa che più mi ha sorpreso è stata la causa scatenante per l’istituzione dei commissariati di sanità: un’epidemia di peste (cosiddetta peste di Marsiglia, 1720), in cui la cartografia è uno degli strumenti di controllo capillare del territorio al servizio del governo. Quante cose ci sono da imparare.

    Margaret Elphinstone, La notte del raduno

    Lo scorso anno con “L’ultima dei Neandertal” avevo detto, ci vuole più narrativa ambientata nella preistoria! Eccomi servito. Siamo nel Mesolitico delle isole britanniche e questo racconto a più voci è la storia di un mondo lontanissimo, in cui uomini e donne vivono secondo regole e credenze molto legate alla natura e ai suoi cicli, ma sono anche pieni di grandezza, di spazi immensi, di legami profondi tra persone. L’ho trovato un racconto senza un genere preciso e forse per questo veramente profondo.

    Telmo Pievani, La fine del mondo

    Mi ha prestato questo libro mio fratello, senza commento. Conoscendo un poco l’autore, mi aspettavo una trattazione sui temi più critici del riscaldamento globale e disastri annessi. Nulla di tutto ciò, il libro di Pievani è una raccolta di sommari culturali-filosofici del mondo occidentale su vari livelli a cui è stata concepita la fine del mondo. Mi ha fastidiosamente ricordato un brutto libro di Remo Bodei letto anni fa. Nessuno spazio è dato alla storia del pensiero nel mondo indiano o cinese. Compaiono i Maya (scritti però minuscoli, diversamente dagli antichi romani maiuscoli) per “lip service” alla più nota delle teorie pseudostoriche catastrofiste. Non mi è piaciuto. Non era piaciuto nemmeno a Enrico.

    Chimamanda Ngozi Adichie, Dovremmo essere tutti femministi

    Molto breve e tagliente. Quest’anno non ho letto in modo esclusivo autrici, ma ho comunque continuato ad esplorare fuori dalla mia comfort zone.

    Ayòbámi Adébáyò, Resta con me (Stay with me)

    E questo è molto fuori. Il racconto è a due voci ma quella maschile sembra in molte parti vivere un livello umano diverso, più elementare, nella lunga tragedia che segna la vita della coppia. È stato straziante, soprattutto con un bimbo di pochi mesi in casa, e scava molto profondamente nelle assurde consuetudini che in tanti luoghi controllano la vita delle coppie che si amano.

    Claire Cameron, L’orso

    Claire Cameron è l’autrice de “L’ultima dei Neandertal”, facile. Ma questo orso è mi-ci-dia-le. Sarà una banalità, ma la voce narrante adorabile di questa storia inquietante rende il libro un vero concentrato di emozioni forti e fortissime. Di nuovo, c’è una quasi corrispondenza con le età dei miei figli e questo mi ha fatto leggere l’orso in maniera molto più riflessiva ‒ parafrasando Scaruffi la trama è l’ultima cosa interessante di tutto il libro.

    Hisham Matar, Un punto di approdo

    Questo è un delizioso regalo per il mio compleanno. Mi ha fatto tornare a Siena e capire quante cose ho perso di Siena negli anni in cui ci ho abitato.

    Chinua Achebe, La freccia di Dio

    Il terzo volume della trilogia, ammesso che sia davvero una trilogia. È spietato e tragico in modo grandioso.

    Donna Haraway, A cyborg manifesto

    Ho letto con grande fatica, in lingua originale, questo saggio, di cui non avevo capito bene né l’estensione né la dimensione politico-accademica. Ho anche ascoltato una versione “audiolibro” non molto ascoltabile, ma pur avendo colto alcuni concetti fondamentali che oggi sono diventati estremamente potenti, non sono riuscito a seguire per bene il discorso complessivo. Mi ha lasciato un po’ guardingo l’avvio iniziale sul ruolo “ironico” del cyborg, perché mi sto convincendo profondamente che l’ironia sia molto deleteria. Quindi ho comprato la traduzione italiana, che leggerò prossimamente.

    Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta (Dispossessed: an ambiguos utopia)

    Ce l’ho fatta! Sono finalmente riuscito a leggere un romanzo di Le Guin. Che meraviglia. Che incredibile viaggio questo sul pianeta Anarres. Scopro l’acqua calda, ma acqua calda rimane.

    James Ellroy, Le strade dell’innocenza (Blood on the moon)

    Ho questa trilogia da un paio d’anni, comprata usata da “Nostalgie di carta”, la libreria di via Daste che purtroppo ha chiuso i battenti con la morte del titolare. Il primo libro è un “classico” Ellroy, lontanissimo dalle costruzioni complesse degli anni successivi ma comunque una buona lettura.

    Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti

    Questo me lo ha prestato mio padre. È il libro che mi ha fatto pensare di più e sicuramente quello che più mi ha fatto innervosire, non perché sia brutto (vedi sopra la fine del mondo), ma perché mescola una ricerca approfondita di luoghi, persone e storie con una serie di mostruosità che non riesco a tollerare. I beceri stereotipi (la macchina femmina, qua e là donne bellissime che compaiono unicamente come tali). L’ingenuità di fronte ai lavori nel ventre delle montagne (pure ritrattata nel libro stesso). Le lamentele sull’abbandono che solo uno nato e cresciuto in città può concepire.

    Il libro è effettivamente composto di due parti (anche qui, dichiarate in apertura), una di autobiografia lenta riguardante le Alpi, i molti personaggi quasi tutti legati all’alpinismo, all’epica della montagna con le sue gesta eroiche e le sue tragedie. Questa parte è forse abbastanza banale. La seconda parte è un diario di viaggio on the road in cui Rumiz attraversa l’intero Appennino evitando tutte le strade principali. In questa seconda parte lo spirito di ascolto è più profondo e segue solo in parte personaggi “famosi”, ma si perde innumerevoli volte di fronte a scempiaggini linguistiche e toponomastiche, è ossessionato da Annibale (su cui ha scritto un altro libro .. ora sul mio comodino) e qualunque cosa incontri lungo il proprio tragitto diventa paradigmatica di qualcosa. Un altro aspetto che trovo fastidioso è il continuo ricorso a paragoni geografici: una nuova valle in cui arriva non merita mai di essere se stessa, ma per avere valore deve per forza assomigliare a qualche altro posto già visto.

    A Rumiz stanno sulle palle i gerani ai balconi e lo scrive svariate volte nel libro. È esterofilo ma solo perché il “vero” spirito della montagna in Italia è soverchiato da altri valori, altrimenti saremmo noi i migliori. Mah.

    Ursula K. Le Guin, Il mago

    La letteratura fantastica e quella fantascientifica non sono così diverse, sembra di capire leggendo questo primo volume della saga di Terramare. La componente psicologica è quella fondamentale nei rapporti tra personaggi e nelle gesta dei protagonisti, ben più della coerenza nel world building o nel linguaggio, che comunque ci sono e sono potenti e sistematici. Ho passato tutta la lettura a consultare la mappa dell’immenso arcipelago, questo mi ha dato grande soddisfazione. Ora voglio con la giusta calma continuare la lettura della saga.

    Sto leggendo Seni e uova di Mieko Kawakami. A proposito di uscire dalla zona di confort.

  • Peer Community in Archaeology, una peer review migliore per tutti

    Qualche giorno fa ho completato la mia prima peer review per Peer Community in Archaeology. Faccio peer review (o referaggio, come molti dicono in anglo-italico) da una decina d’anni. Per diversi anni sono stato editor del Journal of Open Archaeology Data e ho gestito il processo di peer review, che può essere anche molto estenuante e sempre, rigorosamente, gratuito.

    Quando ho scoperto PCI Archaeology mi è parsa subito una iniziativa con grande potenzialità. La open peer review non è una novità, ma con PCI viene messo a sistema l’utilizzo sistematico dei preprint, che sono pressoché sconosciuti tra gli archeologi e ancora più tra gli archeologi italiani. Tutto il progetto Peer Community in conta al momento 11 comunità specializzate in discipline varie.

    PCI Archaeology è attivo dal 2019, ha un cuore francese, è sostenuto dal CNRS e da molte università, ma anche dal Max Planck Institute, se avete bisogno di farvi convincere dal prestigio. C’è già una lista importante di riviste che ha aderito al progetto, tra cui Quaternary, PLOS One, Internet Archaeology, Open Quaternary e ovviamente Journal of Open Archaeology Data. Tra gli 80 recommenders ci sono diversi italiani, con una maggioranza sul versante preistorico e scientifico. Chi fa parte del comitato editoriale di una rivista dovrebbe dedicare un po’ di tempo a capire come funziona PCI, la via più semplice è candidarsi come reviewer e sperimentare di persona il funzionamento.

    Perché la peer review aperta di PCI Archaeology è migliore per tutti?

    Per gli autori, consente di far circolare la propria ricerca appena pronta per l’invio a una rivista e di sottoporla a un processo trasparente. Il preprint deve essere caricato su un server esterno affidabile, come OSF Preprints o Zenodo, perché la review ha una sua autonomia editoriale. È possibile per i reviewer rimanere anonimi ma nella maggior parte dei casi ci sarà un nome affiancato alla review che riceviamo. Il ruolo del “recommender” è abbastanza originale ed è un po’ come avere un editor su misura per ciascun articolo, che può anche essere suggerito tra quelli attivi al momento (oggi sono 80). Quando la review finisce, il preprint diventa una porzione di un “oggetto editoriale” più esteso che collega le review, la recommendation finale (che può anche essere negativa!) e le risposte degli autori alle review. Tutto è pubblico e pubblicato, archiviato e citabile, e il preprint può a questo punto essere inviato a una rivista tradizionale oppure anche citato così com’è, perché di fatto ha tutte le caratteristiche di un articolo completo: identificativo permanente, archiviazione a lungo termine, peer review.

    Per i reviewer, anzitutto la trasparenza incoraggia a svolgere con maggiore attenzione la revisione, perché tutti potranno leggere i nostri commenti ‒ anche se scegliessimo di rimanere anonimi quella review è comunque opera nostra. Ma l’aspetto più incredibile è la possibilità di leggere gli altri reviewer! L’articolo che ho rivisto ha avuto ben 4 reviewer, è stato incoraggiante vedere che diversi punti delle nostre review erano molto simili ed è ancor più stimolante invece capire quali aspetti mi erano sfuggiti, in che modo posso migliorare la mia comprensione di un articolo e la mia attività futura di ricerca e pubblicazione.

    Per i lettori, credo che una diffusione dei preprint in archeologia possa solo aiutare a far crescere la ricerca, e rendere più brillante la ricerca di buona qualità. Ovviamente i preprint sono una forma di open access, quindi tra i vantaggi c’è anche quello di scansare costosi abbonamenti che ormai nemmeno più le biblioteche specializzate riescono a mantenere. Leggere in dettaglio i commenti fatti da altri ad un articolo è corroborante, per me stimola immediatamente un approccio di curiosità, approfondimento e dibattito. Ovviamente le discussioni avvengono comunque, ma si perdono nell’etere. E comunque il fatto che un articolo venga presentato alla comunità scientifica da una persona terza è una tradizione con radici profonde, che solo la burocratizzazione dell’editoria accademica ha cancellato.

    Allora, la breve lista di suggerimenti per iniziare il 2021:

    • iscriversi come reviewer a PCI Archaeology
    • leggere gli articoli già raccomandati!
    • per la prossima pubblicazione, caricare il preprint e mandarlo a PCI Archaeology
  • La villa romana di Bussana, una diretta streaming

    Lo scorso 12 dicembre ho organizzato e presentato un evento in diretta streaming dedicato alla villa romana di Bussana, uno dei siti archeologici più conosciuti di Sanremo.

    La “locandina” dell’evento

    Non mi sono mai occupato nello specifico di questo sito quindi ho pensato di coinvolgere altri colleghi, persone che hanno svolto ricerche e scavi, che hanno lavorato nel contesto paesaggistico circostante. Tutto è stato composto sotto forma di una lunga diretta di oltre tre ore e mezza, in cui ho presentato gli interventi registrati, incluse due visite virtuali, intervallate dai miei commenti e dalle risposte alle domande del pubblico, soprattutto nella seconda parte.

    In questi lunghi mesi di pandemia e lockdown ho partecipato come tanti (anche se certamente non tutti, sia chiaro) a svariate videoriunioni, ho creato contenuti registrati per la diffusione da parte di istituzioni culturali e ho anche tenuto una lezione universitaria. Ma erano tutte situazioni con attori ben precisi, anche quando solo spettatori. Con l’evento dedicato alla villa di Bussana per la prima volta ho sperimentato il parlare al pubblico in diretta digitale. Parlare in pubblico è per me un fatto non quotidiano ma accade regolarmente, in particolare per conferenze e visite guidate. In questo caso la vera complicazione è stato improvvisarsi anche regista e presentatore.

    La diretta streaming è stata trasmessa sulla pagina Facebook della Soprintendenza: chi mi conosce da più tempo sa che non ho più un account Facebook da molti anni e che non apprezzo nessuno dei social network proprietari che hanno così tanto peso nelle nostre vite. Tuttavia, attualmente il MiBACT segue semplicemente le abitudini comuni a tutte le pubbliche amministrazioni e istituzioni culturali, addirittura elevando a sistema la moltitudine di profili social su un nuovo portale dedicato ‒ CulturaItaliaOnline ‒ realizzato “per aggregare in un unico luogo i contenuti Social pubblicati dalle principali istituzioni culturali italiane sui propri account”. I servizi contemplati sono unicamente Facebook, Instagram e Youtube.

    Quando è venuto il momento di decidere se annullare del tutto la visita guidata prevista oppure trasformarla in un evento digitale, avevo già fatto qualche prova con OBS Studio, il programma che consente di organizzare contenuti di tipi diversi e trasmettere in diretta streaming su Facebook, Youtube e molti altri servizi. OBS Studio ha molte funzionalità ed è abbastanza intuitivo, quindi permette di trasformarsi in “registi” improvvisati senza troppe difficoltà. La mia apparecchiatura domestica non era delle migliori ma tutto sommato è stata accettabile. L’inesperienza mi ha portato a sopravvalutare l’utilità della mia connessione ultraveloce, senza tenere conto della scarsa potenza del mio computer, che ha reso scarsa la qualità del video in alcuni momenti, soprattutto mentre stavo trasmettendo video registrati e contemporaneamente seguendo la diretta streaming per verificare che tutto funzionasse a dovere. La latenza di circa 30 secondi ha causato alcuni momenti di “buio” o di parlato tagliato. Non sono riuscito a trovare un modo efficace per ascoltare i contenuti registrati all’interno di OBS in modo da seguire in modo più preciso la fine delle scene preparate e il ritorno alla diretta.

    Quindi la prossima volta, se possibile, dovrebbero essere due persone a occuparsi della diretta (forse nemmeno fisicamente nello stesso posto) in modo che non sia necessario sovraccaricare una singola postazione. Una scheda video dedicata avrebbe comunque migliorato di molto le prestazioni di transcodifica in diretta, e forse anche la conversione dei video registrati in formati più adatti avrebbe aiutato.

    Stanno iniziando a funzionare strumenti liberi per lo streaming indipendente dalle grandi piattaforme, come owncast o Peertube 3.0. Questo è sicuramente uno sviluppo interessante, anche perché si possono comunque usare i social mass media come cassa di risonanza per la promozione senza per questo tenere il contenuto in diretta sui loro spazi e sui loro archivi capienti ma smemorati – vi sfido infatti anche a distanza di pochi giorni a trovare la registrazione se non ne conoscete l’esistenza. Per il momento potete rivedere la registrazione della diretta a questo indirizzo:

    https://fb.watch/2xrEyvQC8Y/

    Il buon successo della diretta e delle visualizzazioni successive (ad oggi oltre 800) mi fa ovviamente pensare che ci sia grande bisogno di questo formato di comunicazione diretto e umano, certamente più coinvolgente di una conferenza anche se molto meno approfondito, a maggior ragione quando le conferenze si svolgono dentro un’area archeologica.

  • Fedora 33: recover disk space from swap partitions, and other tips for upgrading

    As described in detail by Andy Grover in the article Upgrading to Fedora 33: Removing Your Old Swap File on EFI Machine, Fedora 33 defaults to using a compressed-memory-based swap device using zram. There is no swap partition any more!

    It’s time to reclaim that disk space. If you follow the guide in the linked article, you will successfully delete the swap partition but the disk space will remain unused.

    Here’s what I did to extend my home partition by 8 GB, which I found good since it’s only 200 GB.

    Fedora used LVM by default for all releases previous to 33. The commands are those that modify the “physical volume” (pvresize), the “logical volume” (lvextend) and finally the actual filesystem (resize2fs). “volgroup” and “logvol” are example labels for the LVM items, and they may be different on your system.

    pvresize /dev/sda3
    lvextend -l +100%FREE /dev/volgroup/logvol
    resize2fs /dev/volgroup/logvol

    Please make sure you have backups before doing anything that modifies disk partitions and filesystems!

    nano as default editor

    Fedora 33 has nano as default editor for new installs. This means you get nano instead of vi even for git commit messages. To obtain the same default if you’re upgrading from Fedora 32 or earlier, install the package nano-default-editor.

    I have nothing against vi but nano is definitely easier to work with for occasional text editing in the terminal.

  • I gasometri di Ventimiglia tra archeologia romana e industriale

    I gasometri di Ventimiglia tra archeologia romana e industriale

    Qualche settimana fa, grazie all’interesse di Giovanna Rosso del Brenna per i gasometri di Ventimiglia, ho scritto un articolo per Repubblica che è stato pubblicato all’interno di una serie dedicata all’archeologia industriale della Liguria (la serie aveva tratto spunto dalle vicende legate al gasometro di Campi, vicino al viadotto autostradale sul Polcevera).

    Foto dell'articolo pubblicato su Repubblica, edizione di Genova

    L’articolo è scritto a quattro mani con Gianpiero Martino, che è stato funzionario archeologo a Ventimiglia per diversi decenni.

    Di seguito il testo integrale.


    Tra i monumenti di archeologia industriale della Liguria, i gasometri di Ventimiglia sono forse quelli che oggi si trovano nel contesto più inaspettato. L’area archeologica di Nervia infatti è una delle più estese realtà di epoca romana della nostra regione, una delle floride città costiere dell’antichità con monumenti di eccezionale interesse, tra cui spicca il teatro che da pochi anni è tornato a ospitare spettacoli.

    L’Officina del Gas è sorta nei primi anni del XX secolo in una zona del territorio di Ventimiglia che dalla fine dell’Ottocento fino al secondo dopoguerra è stata interessata da una serie di insediamenti industriali, infrastrutture ferroviarie e servizi urbani che ne hanno profondamente segnato la morfologia e lo sviluppo urbanistico ed edilizio.

    Nel 1908 la Albintimilium romana era molto meno riconoscibile di quanto sia oggi, ma lo scavo per la costruzione dei due gasometri da parte della Tuscan Gas Company rivelò la presenza di una strada antica, registrata da Girolamo Rossi insieme ad altri ritrovamenti che però non ostacolarono in alcun modo lo sviluppo del complesso produttivo. Già allora, il profondo interro degli strati di epoca romana, che a Ventimiglia in alcuni punti raggiunge i cinque metri, faceva apparire le distinte aree romane scollegate tra loro, come monumenti isolati ed indipendenti. Fu Nino Lamboglia a iniziare i primi veri scavi stratigrafici, estesi per 1000 metri quadrati nell’angolo nord occidentale dell’Officina del gas, fino a rendere palese la sovrapposizione dell’impianto industriale ai resti delle insulae. I quartieri di abitazione civile sono articolati all’uso romano in isolati delle dimensioni di 10 per 25 m, separati da cardini e decumani con il loro ordinamento regolare. Percorrendo il cavalcavia stradale dell’Aurelia, i passanti vedono ben cinque insulae, due cardini e un decumano, con i due gasometri in secondo piano.

    Paradossalmente, è stato proprio lo sfruttamento industriale dell’area di Nervia che ha consentito al Ministero dei Beni Culturali di acquisire e recuperare gli spazi che costituivano il sedime dell’antica Albintimilium, grazie al contemporaneo trasferimento delle attività dell’Italgas erede della Tuscan Gas Company, delle Ferrovie dello Stato e dell’Enel, avvenuto alla fine del XX secolo. Da allora su gran parte delle aree pubbliche, vincolate per interesse archeologico in momenti diversi già a partire dal secondo dopoguerra, ha preso il via una lunga attività di recupero e progettazione mirata a restituire l’area alla fruizione pubblica, con la costante convinzione di mantenere ed esaltare la duplice natura di questo spazio, due volte archeologico, al tempo stesso romano e industriale. Questo percorso non è ancora concluso, e ha dovuto subire varie battute di arresto compreso l’avvio di una lunga operazione di bonifica dagli idrocarburi che hanno inquinato il terreno, che attualmente ha la poco invidiabile particolarità di essere contemporaneamente un bene archeologico e un rifiuto speciale.

    Oggi le strutture metalliche dei gasometri sono apprezzate soprattutto dai gabbiani e la loro dimensione archeologica, come tracce materiali di un tempo ormai passato, è evidente: il quartiere di Nervia è prevalentemente residenziale e si sta riappropriando degli spazi ex ferroviari ed ex industriali. La pista ciclabile prende il posto del parco ferroviario, valorizzando al tempo stesso i resti più significativi. L’officina del gas è quindi anche il cuore di questo tessuto di archeologia industriale, ancora in attesa di una sistemazione definitiva.

    Le strutture metalliche in elevato dei gasometri, l’elemento più iconico del complesso, non si limitano a un semplice scheletro ma conservano gli elementi originari legati al funzionamento nei loro movimenti di espansione e di abbassamento della calotta, come le “selle” (carrucole) e le cremagliere nelle quali scorrevano sotto la spinta della pressione del gas. Inoltre i gasometri non sono corpi isolati: sia gli edifici ora riconvertiti a servizio dell’area archeologica, sia i forni e le strutture accessorie per la produzione del gas utilizzate nell’Officina sono state opportunamente trattate e bonificate per conservarle. Tra gli edifici, un capannone mostra ancora il pregevole disegno delle capriate metalliche Polonceau, un caratteristico esempio di struttura di copertura industriale di inizio ‘900.

    Il primo progetto di musealizzazione sviluppato nel 1999 prevedeva una ibridazione ancora più stretta tra i gasometri e la città romana, con un percorso di attraversamento su due livelli che avrebbe fatto delle cisterne interrate due suggestivi ambienti espositivi dei reperti archeologici antichi, forse non a caso negli stessi anni in cui prendeva corpo la trasformazione in sede museale della Centrale Montemartini a Roma. La possibilità di riprendere l’intervento di recupero dell’intera area è arrivata lo scorso anno con un primo finanziamento del MiBACT finalizzato a “rimettere in moto” la progettazione e una fruizione almeno parziale.

  • Replacing the battery of Huawei P10 Lite with iFixit

    Replacing the battery of Huawei P10 Lite with iFixit

    A few months ago the battery of my smartphone, a regular Huawei P10 Lite, started acting abnormally. Not only battery life had become very short, but some activities like trying to take a photograph would make the phone shutdown immediately. The phone is now 3 years old and I was not happy about buying a new one just because the battery is damaged. Still, I was almost ready to buy a Fairphone 3+ when I decided I could try replacing the battery. After all, I have some experience with hardware repair!

    The iFixit guide is very detailed and, most importantly, you can buy the replacement battery and all repair tools for 25 euro. It’s worth trying!

    As many commenters point out, the most time consuming part is removing the battery after all other parts have been moved, since there’s a lot of glue. It took me more than one hour and despite my best efforts it came out slightly bended. I didn’t break it though, which seems more important. The iOpener is quite effective however, as are the other tools.

    Putting back enough adhesive to keep everything together is also a long operation, because you will need to cut small pieces of the right length and width. The tools work well even for this part of the repair.

    At the end I was not even sure the phone would turn on, but it did, and what a satisfaction. I only had to throw away the old battery (at the correct collection place) and the “old” phone is almost like new. The battery now lasts for 36 hours or more, and I can hope to keep it running for a few more years.

    I could have asked a repair shop, but even though it’s a pure hardware repair, I was not comfortable leaving my personal phone to someone else. And it would have been more expensive, of course.

    I wanted to write this short post to let everyone know that repairing your phone is possible, thanks to great communities like iFixit, and you should avoid throwing away a literal goldmine just because it’s slightly damaged.

    The crucial moment before putting the new battery in place
    Here you can see the old battery that came out slightly bent
    I put back lots of adhesive myself – at least I hope so
    The new battery is in place and the back lid is about to be closed
  • La peste a Marzano negli anni 1656-1657

    La peste a Marzano negli anni 1656-1657

    Quasi tutti ricordano la peste che fa da sfondo ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. L’epidemia colpì Milano nel 1630 ma risparmiò Genova e la Liguria. Nel 1656 però un’altra ondata di peste bubbonica arriva qui. Colpisce duramente gli abitanti di grandi città come Roma, Napoli e Genova. Non rimangono immuni nemmeno i centri abitati più piccoli come Torriglia e soprattutto, per questa terza pillola storica, anche a Marzano arriva la peste.

    Proprio come avviene oggi con l’epidemia Covid, vengono prese misure drastiche. Marzano è tra le “ville” sospese dalle quali è vietato spostarsi, insieme a Tercesi e Olcesi, perché è un luogo di contagio. Un lockdown in piena regola.

    I controlli sono effettuati da guardie armate delle milizie, che per ogni villa sono sotto un caporale. Niente moduli di autocertificazione, ma proprio come oggi le forze dell’ordine sono impegnate per un rigido controllo degli spostamenti. Conosciamo almeno un caso di violazione del divieto nel mese di ottobre 1656, quando Geronimo e Antonio Costa di Marzano sono denunciati dal caporale Benedetto Mangini per essersi allontanati più volte dai confini imposti.

    In questi anni gli abitanti di Marzano sono circa un centinaio divisi in 18 famiglie (fuochi). Lo sappiamo dal giuramento prestato il 29 novembre 1654 al principe Gio Andrea Doria, a cui prendono parte tutti i capifamiglia. Non abbiamo idea del numero di vittime dell’epidemia, ma a Genova le stime sono nell’ordine delle decine di migliaia di morti e secondo alcuni cadde il 70% della popolazione. Se andassimo a consultare i registri dei defunti nell’archivio parrocchiale avremmo un’idea più precisa. Certo, in un luogo di poche case come Marzano è più facile mantenere (consciamente o meno) quel distanziamento che aiutava a limitare la diffusione del morbo. Non c’erano strumenti particolari per aumentare i controlli, mentre oggi i droni e le celle telefoniche ci guardano di continuo (a proposito: chi manovra il drone che ogni tanto vola sopra le case?).

    Per contrastare l’epidemia si ricorre ovviamente anche alla fede. La cappella della Panteca, intitolata tra gli altri a San Luigi Gonzaga (e forse anche a San Rocco) sembra proprio un esempio di ex voto collettivo e penso che la sua costruzione risalga a questo periodo. D’altronde, la stessa chiesa di San Bartolomeo a Marzano era stata consacrata pochi anni prima.


    Queste notizie sono tratte dai documenti conservati nell’archivio comunale, grazie al lavoro minuzioso di Mauro Casale pubblicato nei due libri La magnifica comunità di Torriglia e Castrum Turrilie. Quindi mi sono basato in prevalenza sulla lettura di questi volumi. Nel 2017 c’è stata una bella mostra dedicata alla peste di Genova del 1656-1657 al Museo dei Beni Culturali Cappuccini. Il libro recente più completo sull’argomento è quello di Romano Da Calice del 2004, La grande peste : Genova 1656-1657.

  • Marzano 200 anni fa

    Marzano 200 anni fa

    Come era Marzano 200 anni fa? Posso dirvi che su una carta geografica era più o meno così:

    Marzano in una carta degli anni 1816-1827 (Istituto Geografico Militare)

    Questa è una piccola porzione della carta denominata “RIVIERA DI LEVANTE ALLA QUARTA DELLA SCALA DI SAVOIA OSSIA DI 1 A 9.450. FOGLIO 83 (Torriglia)“. Mentre per la “pillola” storica precedente mi sono basato su una vecchia fotocopia conservata in mezzo a un libro, per questa seconda ho attinto al portafogli e comprato dall’Istituto Geografico Militare ben due riproduzioni in alta risoluzione.

    Ho deciso di spendere per avere questa riproduzione perché credo che sia la carta più antica in cui Marzano è rappresentato in modo dettagliato. Non sono riuscito a trovare una carta così dettagliata più antica di questa, in altre parole. Le carte settecentesche lo indicano semplicemente come centro abitato in modo simbolico, come è abbastanza normale per l’epoca quando si tratta di aree rurali.

    Una porzione della carta “La Riviera di Levante, Stato di Genova ed altri confinanti” di Matteo Vinzoni (1748, Archivio di Stato di Genova)

    La differenza è notevole, e nella carta di inizio ‘800 possiamo riconoscere singole case o gruppi di case. La seconda versione, cioè la minuta di campagna, contiene qualche dettaglio in più anche se la scala è maggiore. Soprattutto sono indicate strade che poi nella versione acquerellata non sono state disegnate.

    In queste carte la forma del paese è ben diversa da quella attuale. Manca ancora il caratteristico “curvone” della strada carrabile che verrà costruita solo verso la fine del XIX secolo. Le strade principali sono quelle che vanno verso Fallarosa e i Sciutti e quella che arriva dalla Crocetta. Stranamente, sembra che quest’ultima strada passi a Est rispetto a tutte le case.

    Si riconoscono già alcuni gruppi di abitazioni che esistono ancora oggi. La chiesa è isolata su tutti i lati. Non ci sono case più a Est dell’attuale civico 49 di Via IV Novembre. Non ci sono case lungo la “Via Vecchia Marzano”. La piazzetta “della Costa” alle spalle di Piazza Felice Cavallotti è solo il retro del gruppo di case. Si riconoscono i tre blocchi “a schiera” che ancora oggi si trovano sopra Via Fallarosa. Non sembra esistere il “voltino” ma sicuramente ci sono le case più vecchie anche a valle di Via Fallarosa, fino all’altezza dei trogoli. Si riconoscono i Pontelli e le Chistane.

    Non è facilissimo individuare le singole case, anche perché qualcuna nel frattempo è andata in rovina ‒ limitandomi alle Chistane ne conosco almeno tre (inclusa la storica casa di “Giaculeu” abbattuta 40 anni fa) e immagino ce ne siano anche altre. Non è ovviamente possibile stabilire quanto sia preciso il disegno della carta, possono esserci errori, omissioni o sviste, ma riesco a contare 24 edifici più la chiesa e se confronto questo numero con quelli del numero di famiglie di questo periodo o della seconda metà del ‘700, è più o meno lo stesso.

    La base cartografica verrà poi utilizzata a metà XIX secolo per comporre la Gran Carta degli Stati Sardi (ricca di strafalcioni nei nomi) pubblicata nel 1852: sembra che la strada proveniente dalla Crocetta sia più importante delle altre.

    Marzano e dintorni nella “Gran Carta degli Stati Sardi, pubblicata dal Corpo Reale di Stato Maggiore” (1852, Archivio di Stato di Torino, foglio 68 Torriglia)

    Quanto è cambiato il paese in 200 anni! Sicuramente nelle vecchie foto si riconoscono più facilmente le antiche case che esistevano allora.

  • La chiesa di San Bartolomeo a Marzano (Torriglia)

    La chiesa di San Bartolomeo a Marzano (Torriglia)

    Marzano è la frazione del comune di Torriglia (GE) dove sono cresciuto. Un paesino piccolo, luogo di origine dei miei antenati Costa. In questo periodo di isolamento ho avuto la fortuna di passare qui molti mesi e ho raccolto vecchi e nuovi appunti sulla sua storia, per quanto minore e frammentaria.


    La chiesa di San Bartolomeo è l’unica chiesa di Marzano. Non è molto grande e viene variamente definita come cappella, oratorio o chiesa sussidiaria. La sua posizione centrale sulla piazza del paese (che è intitolata a Felice Cavallotti ma è chiamata da tutti “piazza della chiesa”) la rende facilmente riconoscibile. Non credo sia l’edificio più antico esistente in paese, ma è sicuramente quello su cui le notizie storiche sono più numerose, per quanto scarne. E con la storia della chiesa inevitabilmente si racconta anche la storia della comunità.

    I maggiori dettagli storici si ricavano da un articolo del profilico don Giovanni Carraro, pubblicato sul notiziario parrocchiale nel 1938. Una descrizione architettonica più dettagliata che riprende in parte alcune notizie storiche si ricava dalla scheda di catalogo CEI. Riporto il contenuto dell’articolo quasi integralmente con alcuni commenti e soprattutto in ordine cronologico.

    L’articoletto di don Carraro

    La “grande cappella” dedicata a San Bartolomeo Apostolo fu edificata nella prima metà del XVII secolo. Tuttavia, nelle carte dell’archivio parrocchiale viene spesso indicata come cappella dedicata a San Terenziano, vescovo tudertinus (e non terdonensis). In effetti questo dualismo permane ancora oggi: il giorno di San Bartolomeo (24 agosto) viene celebrata la messa, ma è nel giorno dedicato a San Terenziano (San Ransiàn in dialetto, il 3 settembre) che si svolge la festa popolare più laica, quella con i frisceu per capirci. La grande tela che si trova all’interno della chiesa ritrae comunque entrambi i santi insieme a San Rocco, Santa Lucia e Santa Apollonia. La presenza di San Terenziano a Marzano è interessante ed è solo una tra le molte località dell’Appennino dove San Terenziano persiste, talvolta da un millennio. Significativo che le date siano così ravvicinate e a pochi giorni di distanza dal 29 agosto in cui ricorre la Madonna della Provvidenza / Madonna della Guardia.

    La facciata della chiesa oggi

    L’atto di fondazione della cappella fu rogato nel 1648 assegnando una dote di 15 lire annue su terreni vincolati: 10 lire per 8 messe l’anno e 5 lire per riparazioni.

    Nel 1677 fu costituito un censo di 44 soldi su terra l. d. Canivella e un altro censo di 24 soldi.

    Nel 1694 fu rinnovato lo strumento di dotazione della chiesa, autorizzando i massari a riscuotere la somma dalle 27 famiglie, tra cui 5 Guano, 6 Fascia, 2 Pregola, 12 Costa. Vediamo che almeno tre di questi cognomi rimangono tuttora tra quelli caratteristici di Marzano, pur con una differenza di grafia.

    Nella visita pastorale del 28 agosto 1707 si parla di un oratorio campestre intitolato a San Terenziano martire e si descrive lo stato lacunoso delle suppellettili. Nello stesso anno, G. Casazza lasciava una terra detta Fasolai del valore di mezza Genovina.

    Nel 1775 fu concesso di benedire il nuovo altare (che molto probabilmente è quello attuale), purché avesse le misure prescritte.

    Nel 1850 fu dato in locazione per 6 anni un terreno con due castagni e un cerro, detta fascia della chiesa, e un altro terreno detto dell’orto, per 50 lire.

    Il pavimento in graniglia alla veneziana porta la data del 1862 e il nome di Giacomo Costa.

    Nel 1887 viene consentita la costruzione di una nuova casa addossata al coro (esistente ancora oggi), che quindi rende impossibili successivi ampliamenti dell’edificio.

    Nel 1896 viene restaurata dentro e fuori, e provveduta di volta a botte. Nel 1897 viene rinfrescata la facciata e nuovamente nel 1927.


    I lavori di restauro più recenti sono di circa 20 anni fa.

  • All my source code repositories are now on Codeberg

    All my source code repositories are now on Codeberg

    I have moved all my personal source code repositories to Codeberg! Codeberg is the free home for your free projects. Because free and open source software deserves a free and open source platform.

    Codeberg.org is a provider for git source code hosting, based on the Gitea software. Gitea is open source, so there are many servers around, large and small, and there is no centralization. Gitea is very easy to use and it follows the same visual and conceptual paradigms that are common on other platforms. Git itself of course is and remains decentralized. For this reason I could easily switch many providers since I started using Git around 2008: repo.or.cz, gitorious. But that’s the technical side of it.

    Codeberg is run by Codeberg e.V., a no profit organization based in Germany. That means the platform is not run with the purpose of making money (not a bad thing per se, of course) or gathering user data, or accumulating enough social klout to sell the entire platform. It’s a service for the community, just like Wikipedia and OpenStreetMap. And there’s more: you can join Codeberg e.V. and become an active member. You’ll need to pay a small annual fee (which helps cover the costs of infrastructure) and you can participate in the discussions and decisions that shape the future of Codeberg. When I decided to move my repositories to Codeberg, I thought it was an excellent opportunity to give a strong support to this initiative and encourage more users to join us.

    Gitea is open source and it’s not difficult to run your own server. But, as any sysop knows, running thousands of separate servers doesn’t scale, that is, the costs of hosting 1000 repositories on 1000 separate servers are a lot higher that keeping those same 1000 repositories on 1 server only. Keeping a server running and up to date takes time, too. So I think it’s better to keep some of the advantages of centralized platforms and change what is really wrong with them: the software must be free, the governance must be open, the funding should come from users.

    .org hosting on .com was a historical mistake we all made. Time to correct it!

    Andreas Shimokawa

    I took the move to Codeberg as an opportunity to improve my good practice in software development and repository management:

    • I’m not creating “vanity” organizations like I did in the past: all repositories are under the steko user and I will consider creating an organization only when there is an actual community around a project (like we did for Total Open Station)
    • I’m trying to avoid overengineering with planned releases, issues, and anything that puts stress where fun and passion should be
    • I’ll be signing all Git commits with my GPG key
    • I will never again cite a source code repository in an academic paper: instead I will upload the snapshot to Zenodo, get a DOI and cite that (I did this mistake too many times in the past, even recently, only to realize how volatile these URLs can be)

    If you are an open source developer, I encourage you to join me on Codeberg!


    What’s wrong with GitHub?

    In the past 10 years the (apparently) unstoppable trend has been of concentrating the development of most open source software on GitHub, a proprietary service that was acquired by Microsoft last year. When that happened, some people became worried upon realizing that one of the giant monopolies had taken possession of their favourite platform. However, GitHub was a proprietary service all along, and it was made possible by venture capital. It was silly to make it a sacred place, as was teaching students Git as merely the tool behind GitHub, or using GitHub Pages as the “best” option for your website. Yes, there are millions of developers using GitHub, and it makes a lot of things easy, for free… but that comes at a price. I had started deleting repositories from GitHub last year, now only a few ones remain but I will delete those as well. While my personal repositories are moving to Codeberg, at this time Total Open Station remains on GitHub (of course I will try to move it as well, but that’s not a decision I can take by myself and it’s not even on the table).

    Some people moved to Gitlab.com, the flagship website of the company with the same name. The Community edition of Gitlab is open source, and it’s used by Debian, Gnome, Framasoft and other large projects. I had been using Gitlab.com for a few years and I dislike it from many points of view, mostly descending from the fact that it’s funded by venture capital. There were many revealing episodes: asking female employees to wear high heels; putting forward a ‘no politics at workplace’ stance, in order to keep quiet how much they’re looking for big contracts with all branches of the US government including Immigration and Customs Enforcement (ICE). They messed with users’ privacy and retracted introducing telemetry after public outrage. And I’m not even touching the technical side, since GitLab started as a simple GitHub clone and is now a behemoth all about putting your projects in Kubernetes. I have deleted and rectracted almost all repositories and I will delete everything shortly (my user account may remain there, empty, because I don’t like name squatting). In short, if you self host Gitlab, it may be fine, but I would never recommend putting your open source efforts on gitlab.com.

    The old Bitbucket, where I had many of my early Mercurial repositories, is dropping support for Mercurial and suffers from all the same problems of other proprietary platforms. I converted all those repositories and I’m moving those as well, even the old ones that I consider archived, because I think there’s some value in them.