Stefano Costa

There's more than potsherds out here

Faccio l’archeologo e vivo a Genova

  • #MuseumWeek: riflessioni a freddo

    #MuseumWeek: riflessioni a freddo

    Il mese scorso abbiamo celebrato la prima #MuseumWeek, una settimana di alta visibilità social per i musei di alcuni paesi, tra cui l’Italia ‒ tutta su Twitter. Se ne è parlato molto tra gli addetti ai lavori e mi sembra che tutti siano rimasti contenti. Anche io ho partecipato alla #MuseumWeek, occupandomi dell’account @archeoliguria della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria (dove lavoro). Siamo quasi in fondo alla lista dei musei italiani che hanno aderito ufficialmente.

    Già in corso d’opera c’erano state raccolte di dubbi, più sullo svolgimento pratico che sull’iniziativa in generale, come ha scritto Linkiesta. Qui vorrei raccogliere, un po’ per riflessione un po’ per mugugno, alcuni elementi di debolezza che ho colto durante la settimana e che mi sembrano importanti per tutte le prossime volte che parteciperemo a una iniziativa simile.

    Anzitutto, i tempi. La #MuseumWeek si è svolta dal 24 al 30 marzo 2014, e la notizia è comparsa sul blog di Twitter il 10 marzo, cioè due settimane prima. Per essere una iniziativa a cui dovevano partecipare centinaia di istituzioni in mezza Europa, il preavviso è stato scarso. Ma il motivo è presto detto: è stata organizzata completamente top-down, con date e tempistiche fissate in anticipo, fino alla definizione degli argomenti da trattare. Mi direte: è il bello del social, l’improvvisazione, e tu sei un bradipo! Vi rispondo che con 5 musei da coordinare distribuiti in tutta la regione, con una infrastruttura tecnologica non proprio all’avanguardia non è stato facilei bradipi quasi sempre fanno 4 o 5 cose diverse contemporaneamente e non dedicano l’intera giornata ai social media. I bradipi più bradipi sono stati quelli che già durante la #MuseumWeek mandavano e-mail chiedendo di inviare via e-mail dei messaggi di 140 caratteri che poi avrebbero provveduto a far pubblicare su un certo account istituzionale molto seguito…

    A chi si iscriveva mandando una e-mail a museumweek2014@gmail.com veniva inviata da Massimiliano D’Ostilio (della società TTA) una breve presentazione in cui si scoprivano i temi del giorno e le modalità previste di interazione. Si tratta secondo me di un documento banale, di taglio puramente promozionale, in cui sono stati elencati solo benefici e nessun rischio (l’ABC della progettazione, credo). Tanto per fare due esempi concreti: i musei italiani hanno corso il rischio di essere insultati per i noti problemi di gestione del patrimonio (durante quella settimana non credo sia successo, ma capita), mentre gli utenti hanno rischiato di trovarsi la timeline inondata di contenuti non sempre interessanti (e credo che in alcuni giorni questo sia successo davvero).

    La scaletta delle tematiche era molto adatta a musei grandi e tradizionali, ruotando in modo determinante intorno alle collezioni, le opere e i quadri, insomma non il massimo per piccoli musei e aree archeologiche. In effetti se rileggete il post di presentazione questa preferenza è chiara, dal calibro dei musei citati (e speriamo coinvolti nell’ideazione, almeno loro). Sopra ho scritto che questi sono appunti per la prossima volta che parteciperemo proprio perché la #MuseumWeek, bella ed entusiasmante, era una offerta da prendere o lasciare ‒ anche se qualche museo l’ha interpretata a modo suo.

    Ma insomma, tutti questi sono inutili mugugni perché la #MuseumWeek è stata una figata pazzesca e siamo stati nei trending topic per una settimana intera e abbiamo moltiplicato i follower e abbiamo avuto n-mila interazioni… forse. Siamo stati nei trending topic ma eravamo veramente tanti quindi era abbastanza scontato, oltre al fatto che Twitter potrebbe aver deciso di mettere la #MuseumWeek nei trending topic. Abbiamo moltiplicato i follower, indubbiamente, e per molte realtà piccole e agli esordi social questo è stato importante: @archeoliguria è passata nell’arco della settimana da 200 a 300 follower circa. Abbiamo avuto davvero molte interazioni, che non mi sono messo a contare, ma sulla qualità di queste interazioni ho qualche dubbio: anzitutto c’è stato un fortissimo senso di cooperazione tra le realtà medio-piccole e ci siamo fatti coraggio a vicenda, ritwittando i messaggi degli altri musei, commentando e rispondendo alle domande del giorno tra di noi, mentre il pubblico “esterno” ha interagito meno (potrei dire molto meno, se avessi dei numeri). Giornate come #AskTheCurator e #GetCreative hanno mostrato come il pubblico, anche quando si entusiasma, è abbastanza pigro o semplicemente non è abituato a parlare con il museo ‒ anche perché c’è una ampia fetta di popolazione “esperta” di archeologi, storici dell’arte, guide turistiche che forse ha partecipato più per senso di appartenenza che per curiosità verso qualcosa di nuovo. Generalizzando, mi dispiace invece notare come i grandi musei e poli museali abbiano scelto ancora una volta di rimanere in modalità broadcasting, sfruttando tutta la loro visibilità per mostrarsi al pubblico con cui non hanno minimamente interagito. Delle vere superstar. A proposito di superstar, è rimasto un po’ in sordina anche l’esercito sempre più numeroso dei personaggi parlanti che hanno iniziato a popolare Twitter dopo il successo dei due tamarri bronzi di Riace (a proposito: che fine avranno fatto?)

    Tutto da buttare? Assolutamente no. Ma non è tutto #oro quel che #luccica e non credo, come ha invece scritto @insopportabile, che Twitter abbia assolto al ruolo di un ministero della cultura organizzando la #MuseumWeek. Il successo lo abbiamo fatto noi ma credo che ci voglia ben altro per trasferire il successo social ai musei in carne e ossa: non dobbiamo vendere niente, ma raccontare tantissimo.

  • L’Italia in Africa: Pietro Toselli, Amba Alagi e il “solito” piatto in ceramica

    L’Italia in Africa: Pietro Toselli, Amba Alagi e il “solito” piatto in ceramica

    Quando due anni fa ho pubblicato su questo blog un racconto iper-dettagliato su alcuni piatti marchiati Società Ceramica Italiana non avrei mai pensato che quel racconto sarebbe diventato di gran lunga la pagina più visitata di questo piccolo blog. Era inaspettato, mi ha messo in contatto con altre persone molto più competenti di me sull’argomento, ma soprattutto mi ha incoraggiato a coltivare l’interesse verso le ceramiche di età contemporanea. Oggi vi racconto una storia un po’ meno personale ma abbastanza simile e altrettanto interessante.

    Parliamo di un piatto prodotto a Mondovì dalla manifattura Alessandro e Cesare Musso tra il 7 dicembre 1895 e il 1 marzo 1896. Non è molto frequente avere una indicazione cronologica così precisa per la produzione di un manufatto industriale di massa ‒ e si tratta di una cronologia indiretta ma rigorosa. Ma andiamo con ordine.

    La scorsa primavera ho riordinato per lavoro alcuni reperti in ceramica provenienti da uno scavo urbano effettuato a Oneglia tra 2010 e 2011 ‒ con una documentazione fotografica preliminare. Un lavoro molto semplice e ovviamente superficiale. Non potevano comunque sfuggirmi i due frammenti di questo piatto, che raffigurano una divisa militare e una approssimativa carta geografica con nomi chiaramente etiopi come Doba, Ender[a], Ezba, Amba. Su un frammento della tesa si legge “maggiore”. Vi basti che stavo leggendo Point Lenana proprio nello stesso periodo.

    Ho cercato un po’, ho trovato il libro Ceramiche patriottiche e militari dell’Italia contemporanea di Roman H. Rainero (edito nel 2008) e ho deciso che lì potevo trovare qualche notizia in più. Il libro non è molto diffuso ma l’ho trovato nella bellissima biblioteca dell’Istoreto di Torino. E nel libro ho trovato il piatto, ovviamente.

    In biblioteca all'Istoreto con il libro e le foto del piatto
    In biblioteca all’Istoreto con il libro e le foto del piatto

    Il piatto è stato prodotto dalla manifattura di Alessandro e Cesare Musso a Mondovì, come indicato nel marchio a inchiostro. Questa manifattura non compare nell’Archivio della ceramica italiana del ‘900, forse perché chiuse i battenti a fine Ottocento, ma è probabilmente collegata alle altre manifatture Musso di Mondovì. Il piatto porta una decorazione dedicata (stranamente) alla commemorazione di un evento negativo per l’Italia: la disfatta di Amba Alagi durante la guerra abissinica, in cui perse la vita il maggiore Pietro Toselli (a cui sono intitolate vie in moltissime città d’Italia, non ultima Siena).  La data di produzione è necessariamente compresa tra il 7 dicembre 1895 (data della battaglia) e il 1 marzo 1896, cioè la data della sconfitta ben più disastrosa di Adua, che compare invece in posizione defilata nella approssimativa carta geografica alle spalle di Toselli. Nel frattempo c’era stato anche l’assedio di Macallè, celebrato in altri due piatti della serie “L’Italia in Africa” molto simili anche nella decorazione.

    Preciso subito che non conosco il valore di mercato di questo piatto, nel caso in cui ne possediate uno intero (dubito che in frammenti sia di interesse per i collezionisti). Ho l’impressione che non ve ne siano molti esemplari in circolazione, probabilmente a causa del breve periodo in cui è stato prodotto, ma posso sbagliarmi.

    Da archeologo, lasciando da parte il piatto intero e tornando ai frammenti, devo sottolineare che questo reperto va considerato nel suo contesto di rinvenimento, in cui erano presenti altri oggetti prodotti a Mondovì nello stesso periodo. È certamente molto raro trovarsi di fronte a un reperto ceramico con una datazione così ristretta, che spesso è rara anche per una moneta. Spero ovviamente che tutto il contesto venga pubblicato (per chiarezza: non me ne sto occupando), sarà molto interessante e darà una prospettiva meno ristretta alle osservazioni su che ho raccolto qui.

    D’altro canto, non posso non domandarmi che significato ha avuto questo piatto per chi lo ha comprato e posseduto: persone senza nome ma certamente affascinate dall’impresa coloniale italiana, come tante altre in quegli anni. Certamente non tutti condividevano questo entusiamo, né era da tutti acquistare questi oggetti celebrativi da esporre nelle proprie case. Negli stessi anni sempre a Mondovì si producono oggetti in ceramica tesi a raffigurare gli etiopi con fattezze mostruose e animalesche, come a rafforzare l’idea della loro inferiorità. Sarà poi il regime fascista a condurre per alcuni anni l’Etiopia sotto il dominio italiano.

    Riporto alcuni brani del libro, ricordando che se siete interessati a questo argomento potete comprarlo direttamente dal bookshop del Museo Storico Italiano della Guerra o cercarlo in biblioteca.

    La descrizione del piatto (pagina 95):

    Pietro Toselli ad Amba Alagi. La prima guerra d’Africa inizia con il tragico scontro di Amba Alagi […] Immediatamente l’emozione diventa l’occasione per un piatto celebrativo della speciale serie “L’Italia e l’Africa” dove compaiono la figura del Toselli (chiamato erroneamente Pier) sullo sfondo di una incerta carta geografica della regione attorno all’Amba Alagi e, nella tesa, i nomi dei due capi militari italiani in campo: il governatore dell’Eritrea, generale Oreste Baratieri, ed il comandante delle regie truppe in Africa, maggior generale Giuseppe Arimondi. E, per la salvezza dell’Italia, il famoso “Stellone d’Italia”. La data della produzione del piatto si può  situare esattamente tra il 7 dicembre 1895 ed il 1° marzo 1896, data della sconfitta di Adua, località che nel piatto compare senza evocare la battaglia che ancora doveva avvenire.

    Piatto di ceramica, manifattura Alessandro e Cesare Musso (Mondovì), diametro 24 cm [MGR FO 98]

    La serie “Italia in Africa” fu comunque un successo effimero (pagina 97):

    La serie ”Italia in Africa”. Il positivo esito di vendita dei piatti di Toselli e di Galliano indusse la manifattura ad inaugurare una vera serie di “piatti coloniali” dell’Italia, nella speranza di proseguire le fortunate produzioni. Ma questo progetto non andò molto avanti, forse per le infauste sorti della guerra, e così lo speciale marchio della serie di Toselli e di Galliano su “L’Italia in Africa” non annoverò la produzione di altri piatti.

    Le manifatture ceramiche italiane sono schierate con le autorità (pagina 17), e questo fa riflettere sull’estrazione sociale degli acquirenti di questi piatti:

    le produzioni italiane appaiono stranamente diverse da quelle rivoluzionarie francesi in quanto non celebrano mai eventi “sgraditi” alle autorità e a una certa parte dell’opinione pubblica. […] si trovano celebrate persino sconfitte clamorose (Amba Alagi, Macallé) ma mai momenti di lotta dell’“altra” Italia, quella che pareva non degna di fare storia ufficiale.

    Alla prossima puntata.

  • For Aaron Swartz

    For Aaron Swartz

    I didn’t know Aaron Swartz. And yet his tragic end touched me a lot. I saw some friends and colleagues react strongly in the weeks following his death, as strong as you can be in front of a tragedy at least.

    Aaron was only a few years younger than me. He had achieved so much, in so little time. He was an hero. He is an hero.

    I was deeply touched and I am still sad especially because I do the kind of things that Aaron did, although on a much smaller scale. I am not an hero, of course.

    In 2008 I started collecting air pollution data from a local government office. Everyday, one PDF. Later I started writing web scrapers for this dataset and others. I never really got to the point where the data could be of any use. Most of this was done out of frustration.

    In 2009 I got a PhD scholarship from my university and with that came a VPN account that I could use from anywhere to access digital resources for which the university had a subscription (including part of JSTOR). I gave those credentials to several friends who had not the same privilege I had, and I didn’t worry, even though those were the same credentials used for my mailbox. You cannot even try to move your first steps into an academic career without access to this kind of resources.

    I regularly share digital copies of prints, especially the incredibly awful copies made by photographing a book. Every single person I have been working with in the last three years does this regularly: scans, photographs, “pirate” PDFs or even pre-prints, because everything will do when you need a piece of “global” knowledge for your work. I have to break the rules so regularly that it feels normal. And yet, I don’t feel guilty for any of that, except for the fact that I didn’t take the next step with access to knowledge, giving to everyone and not just to a small circle of people.

    Sometimes between 2008 and 2009 I helped making a copy of the entire archive of BIBAR (Biblioteca di Archeologia, mostly about medieval archaeology), hosted at my university. That’s more than 2 GB of academic papers, the same kind of content that Aaron took from JSTOR. Years later, that copy lives as a Torrent download, out of any restriction. It’s a small #pdftribute for Aaron.

  • An Early Christian basilica in Turin (Torino)

    La Repubblica.it reports that recent excavations in Turin (Torino) have brought to light an Early Christian basilica. That is the third Early Christian complex found in late Roman Augusta Taurinorum. Most interestingly, it is much further away from the city walls (in the upper part of the map shown here), as Egle Micheletto points out in the interview. While the size of the Early Christian city is not comparable to e.g. Mediolanum, it is still impressive!

    Map of Turin showing the 3 known Early Christian basilicas (landmarks) and the walled Roman city (blue polygon). The new basilica is in the upper right.

    The archaeological remains will be visible to the public only when the construction project is finished in 2016, according to the article.

    Is this a satisfactory account of archaeology in the public interest?

  • Introducing the Nobel Prize in Literature Index

    I have been thinking about my own ignorance in culture recently, questioning my self-perception as an intellectual.

    A good example of this is how many Nobel laureates in Literature I have never bothered to read at all. In some cases books were only assignments in highschool, but I think that counts as education after all.

    You can share my feeling of inadequate ignorance, too. Open the list of Nobel laureates in literature. Count how many authors you have read, only complete works or substantial parts are valid. The resulting number is your NoPLi index.

    Mine is a shameful 8.

  • Blogging archaeology: the good, the bad and the ugly

    This is round #2 of the blogging archaeology carnival run by Doug Rocks-Macqueen. My previous post is here.

    The good

    The good is that blogging makes me a better archaeologist. Blogging is a collective endeavour and being part of it has meant for all these years to get in touch with other people, discover research paths that were otherwise invisible. Getting more visibility is only one side of this, and I don’t think my blog is necessarily making me a popular archaeologist, but there have been some fortunate cases, like when I decided to write a story about 20th century mass-produced pottery (apparently very popular!), or the idea of discussing “Archaeology (and Web) 2.0“. Blogging is a skill, that is featured in my CV.

    The bad

    I cannot always write what I want on my blog. This is partly because I have a natural tendency to write rants, but also because since I started blogging I have always been within some institution (e.g. university) and straight criticism of colleagues or managers is almost always not well received. Now that I work for a public institution, things are even worse in this respect, because I could write a lot about interesting topics, but not without dealing with stories that are potentially disagreeable. I prefer to keep these things for myself, but I’m not happy with that.

    Is this really bad? Yes. Writing and blogging comes out of creativity, freedom of expression and speech, and limiting myself to academic topics and general politics is increasingly frustrating.

    The ugly

    It would be hard for me to find something really ugly about blogging archaeology.  So I’ll just leave you with the final scene of “Rock’n’roll highschool”:

    Ugly, ugly, ugly people.

    (bonus points if you know why the Ramones must be quoted when dealing with “The good, the bad, the ugly”).

  • Libri 2013

    Libri 2013

    Anche quest’anno una recensione sommaria dei libri che ho letto. Sempre troppo pochi. Libri vecchi e libri nuovi. Impressioni incoerenti. Questa non è una classifica.

    Wu Ming 1, Roberto Santachiara. Point Lenana

    Il mio libro del 2013. Perché?

    Primo, perché è un libro che racconta una storia che mi appartiene un po’, avendola ereditata, di gente che va in cima alle montagne. Capire chi e cosa è quel Club Alpino Italiano di cui ho una tessera socio con una mia foto da bambino sopra. Quel Felice Benuzzi ha qualcosa di familiare sotto tanti angoli, non ultimo una vita trascorsa nella diplomazia internazionale.

    Secondo, perché grazie a questo libro dopo tanti, troppi anni ho ripreso a camminare in montagna (1 vetta, altre 3 escursioni, 1 notte in rifugio). Ed eravamo in due a camminare!

    Point Lenana è il mio libro del 2013 perché ha messo in moto un meccanismo che non si è ancora fermato.

    Felice Benuzzi. Fuga sul Kenya

    Lettura obbligata, eppure così diversa da Point Lenana. Solo apparentemente il racconto semplice di una vicenda straordinaria, perché in effetti la scrittura ha molto a che vedere con quella scalata.

    E come ho avuto modo di commentare su Giap, la presa di consapevolezza che Felice ebbe al suo rientro nel campo di Nanyuki, il riconoscimento della “azione concentrata” come debolezza non è solo uno dei tanti momenti di antifascismo interiore (di cui si parla in Point Lenana) ma è secondo me anche uno specchio della lunga autocritica che Wu Ming ha fatto dopo Q e dopo il G8 di Genova.

    Giovanni Balletto. Kilimanjaro. Montagna dello splendore

    Lettura non scontata, questa. Come abbiamo scoperto dai libri precedenti, un medico alpinista genovese nell’Africa Orientale Italiana viene fatto prigioniero nel 1941, scala una montagna, torna libero e continua (cocciutamente?) a voler stare in Africa a fare il medico, vicino alla «Montagna delle Carovane». Balletto è diretto, semplice come salire in cima a un monte o morire di peste.

    Questo libro era in casa dal 1974. In casa di un medico alpinista genovese.

    Wu Ming 2, Antar Mohamed. Timira

    Il romanzo meticcio, cugino di primo grado di Point Lenana, è stato un lunghissimo sospiro di sollievo mentre ascoltavo Isabella, il primo personaggio femminile in un romanzo di Wu Ming che mi ha trasmesso qualcosa di umano. Non è che nelle opere precedenti i personaggi femminili non ci fossero, ma ho sempre avuto l’impressione che fossero in secondo piano, vagamente stereotipate. Serviva l’incontro con un personaggio in carne ed ossa per cambiare, per essere travolti dalla femminilità?

    Isabella è stata davvero un personaggio inimmaginabile ‒ il suo racconto è un antidoto molto potente contro quel “piccolo colonialista [che] occupa in pianta stabile i crani occidentali”.

    SIC. In territorio nemico

    La storia di In territorio nemico è potente e ripugnante, fa torcere le viscere. È scritta in un modo molto strano (la Scrittura Industriale Collettiva, SIC) da 115 persone. Il risultato è molto cinematografico e può sembrare poco “letteratura” perché è molto asciutto, diretto, ma io credo che abbia una carica epica invidiabile.

    Paolo Cognetti. Sofia si veste sempre di nero

    Ok, ammetto di aver comprato questo libro “solo” perché attirato dalla incessante macchina dell’entusiasmo dei lettori Minimum Fax (che ci prendono praticamente sempre). Sono dei racconti che si non si agganciano uno dietro l’altro ma complessivamente tengono eccome. Tutto intorno a Sofia, uscita direttamente da un fumetto, complicata, capricciosa. Cosa aspettano a comprare i diritti TV?

    Lo sfondo è interessante ‒ piccola borghesia, gioventù ribelle e alternativa, gli anni ’70 che bussano sempre alla porta ‒ ma non mi ha convinto del tutto (a parte il gasometro).

    Jeffrey Eugenides. La trama del matrimonio

    L’ultimo libro di Jeffrey Eugenides ovviamente è fatto di molti livelli diversi. Un po’ di appunti sparsi …

    A volte uno ha l’impressione che Eugenides in realtà sia una donna. Perché non mi viene in mente nessuno che abbia scritto al femminile così tanto e così bene. Ma sono stereotipi, cazzate.

    Grecia, a sprazzi. Ma intensamente presente come d’obbligo.

    Providence, cazzo. Quella Providence, quella di Lovecraft. Un effetto stranissimo vederla trasformata in una città universitaria. Sede di eventi di per sé banali, insignificanti. Eppure la storia letteraria ha il suo peso e nei momenti giusti si vede.

    Sesso. Eugenides continua a saperlo usare come un elemento vitale, con un realismo difficile da trovare (per eccessi nell’uno o nell’altro senso).

    Tempo. Il titolo del libro include la parola plot e con il plot Eugenides fa degli strani giochi, saltando avanti e indietro nel tempo, mescolando il ricordo con l’anticipazione.

    Murakami Haruki. L’arte di correre

    Questo libro è un regalo, che ho ricevuto perché nel 2013 mi sono messo a correre. Gli appunti su questo libro me li ero persi e arriveranno.

    J. R. R. Tolkien. Il cacciatore di draghi

    Nella bellissima edizione Einaudi con copertina rigida del 1975, un regalo inaspettato. Illustrazioni meravigliose. Una storia divertentissima e una satira tagliente. Che bello se potesse essere un racconto per bambini.

    Machine of Death

    Raccolta collettiva di racconti + fumetti, legati da un unico, assurdo tema: l’esistenza di una macchina che è in grado di predire la causa della vostra morte da un campione del vostro sangue. La macchina ha un pessimo senso dell’umorismo. Nonostante prevalga l’humour nero, non è una lettura leggera e ci sono alcune storie che vorrete rileggere.

    L’unico libro in inglese che ho letto. What a slack.

    James Ellroy. American Tabloid

    Questo l’ho voluto leggere perché quei mangiapreti dei Wu Ming hanno sempre detto che era stato l’ispirazione per Q. E accidenti se è stato di ispirazione. Leggetelo e lascerete Veltroni da solo a pensare che JFK sia stato un mito.

    Mauro Vanetti (curatore). Tifiamo Asteroide

    Una folle raccolta di 100 racconti in cui alla fine c’è un buco per terra al posto del Presidente del Consiglio Enrico Letta, con la musica in sottofondo. Il modo in cui si arriva a questo finale è lasciato agli autori dei racconti. Sì, ci sono anche io. E leggetevelo, che si scarica.

     ⁂

    Per il reparto saggistica, una cosa interessante e una cosa noiosa.

    Alessandro “jumpinshark” Gazoia. Il web e l’arte della manutenzione della notizia

    Ebook di lettura semplice, molto chiaro nell’esposizione anche se forse un po’ troppo schematico e ripetitivo.  Lettura fortemente consigliata per chi ha a cuore l’informazione, e costa meno di un cornettoecappuccino.

    Tomaso Montanari. Le pietre e il popolo

    Non si capisce per chi sia scritto questo libro.  Non lo capisco io, diciamo. Se è scritto per il popolo, allora è sicuro che il popolo non lo leggerà. Se è scritto per gli specialisti, allora è inutile visto che ripete cose abbastanza note. Il messaggio è lo stesso che va ripetendo da anni Salvatore Settis, con scarsi risultati. Forse i professori universitari non sono le persone più indicate per cambiare le cose?

  • La prossima volta,

    La prossima volta,

    La prossima volta che sentite parlare di nuove tecnologie per i beni culturali.

    La prossima volta che vedete la favolosa scansione 3D di un monumento.

    La prossima volta che vi raccontano che il web e il museo e il futuro e il duepuntozero e la comunicazione e la valorizzazione e la fruizione.

    La prossima volta che sentite parlare di innovazione nei musei e nelle biblioteche.

    La prossima volta che sfogliate [rivista/sito web che propaganda le magnifiche sorti e progressive delle tecnologie innovative per i beni culturali].

    La prossima volta che c’è un convegno per parlare dei vantaggi delle cose elencate sopra…

    Ecco, la prossima volta, tenete conto che la British Library ha appena messo su un milione di immagini nel pubblico dominio, che tutti possiamo consultare, usare per fare qualunque cosa. Tipo curiosare, imparare, stamparle sui jeans e proiettarle sulla facciata del Cremlino.

    Ne sentirete sicuramente parlare al prossimo convegno in cui si parla di innovazione e di duepuntozero e il futuro… nel frattempo la British Library avrà rilasciato altri dieci milioni di immagini.

  • Bello il discorso di George Saunders agli studenti

    Bello il discorso di George Saunders agli studenti. L’unica cosa che non ho capito è perché abbiano tagliato la parte in cui dice “Stay hungry, stay foolish”.

    Perché da qualche parte là fuori c’è ancora qualche minchione convinto che quell’altro fosse un gran discorso.

  • Archaeology and Django: mind your jargon

    I have been writing small Django apps for archaeology since 2009 ‒ Django 1.0 had been released a few months earlier. I love Django as a programming framework: my initial choice was based on the ORM, at that time the only geo-enabled ORM that could be used out of the box, and years later GeoDjango still rocks. I almost immediately found out that the admin interface was a huge game-changer: instead of wasting weeks writing boilerplate CRUD, I could just focus on adding actual content and developing the frontend. Having your data model as source code (under version control) is the right thing for me and I cannot go back to using “database” programs like Access, FileMaker or LibreOffice.

    Previous work with Django in archaeology

    There is some prior art on using Django in the magic field of archaeology, this is what I got from published literature in the field of computer applications in archaeology:

    I have been discussing this interaction with Diego Gnesi Bartolani for some time now and he is developing another Django app. Python programming skills are becoming more common among archaeologists and it is not surprising that databases big and small are moving away from desktop-based solutions to web-based

    The ceramicist’s jargon

    There is one big problem with Django as a tool for archaeological data management: language. Here are some words that are either Python reserved keywords or very important in Django:

    • class (Python keyword)
    • type (Python keyword)
    • object (Python keyword)
    • form (HTML element, Django module)
    • site (Django contrib app)

    Unfortunately, these words are not only generic enough to be used in everyday speak, but they are very common in the archaeologist’s jargon, especially for ceramicists.

    Class is often used to describe a generic and wide group of objects, e.g. “amphorae”, “fine ware”, “lamps”, ”cooking ware” are classes of ceramic products ‒ i.e. categories. Sometimes class is also used for narrower categories such as “terra sigillata italica”, but the most accepted term in that case is ware. The definition of ware is ambiguous, and it can be based on several different criteria: chemical/geological analysis of source material; visible characteristics such as paint, decoration, manufacturing; typology. The upside is that ware has no meaning in either Python or Django.

    Form and type are both used within typologies. There are contrasting uses of these two terms:

    •  a form defines a broad category, tightly linked to function (e.g. dish, drinking cup, hydria, cythera) and a type defines a very specific instance of that form (e.g. Dragendorff 29); sub-types are allowed and this is in my experience the most widespread terminology;
    • a form is a specific instance of a broader function-based category ‒ this terminology is used by John W. Hayes in his Late Roman Pottery.

    These terminology problems, regardless of their cause, are complicated by translation from one language to another, and regional/local traditions. Wikipedia has a short but useful description of the general issues of ceramic typology at the Type (archaeology) page.

    Site is perhaps the best understood source of confusion, and the less problematic. First of all everyone knows that the word site can have a lots of meanings and lots of archaeologists survive using both the website and the archaeological site meaning everyday. Secondly, even though the sites app is included by default in Django, it is not so ubiquitous ‒ I always used it only when deploying, una tantum.

    Object is a generic word. Shame on every programming language designer who ever thought it was a good idea to use such a generic word in a programming language, eventually polluting natural language in this digital age. No matter how strongly you think object is a good term to designate archaeological finds, items, artifacts, features, layers, deposits and so on, thou shalt not use object when creating database fields, programming functions, visualisation interfaces or anything else, really.

    The horror is when you end up writing code like this:

    class Class(models.Model)
        '''A class. Both a Python class and a classification category.'''
    
        pass
    
    class Type(models.Model)
        '''A type. Actually, a Python class.
    
        >>> t = Type()
        >>> type(t)
        <class '__main__.Type'>
        '''

    Not nice.

    Is there a solution to this mess? Yes. As any serious Pythonista knows…

    Explicit is better than implicit.
    […]
    Namespaces are one honking great idea — let’s do more of those!

    The Zen of Python

    Since changing the Python syntax is not a great idea, the best solution is to prefix anything potentially ambiguous to make it explicit (as suggested by the honking idea of namespaces ‒ a prefix is a poor man’s namespace). If you follow this, or a likewise approach, you won’t be left wondering if that form is an HTML form or a category of ceramic items.

    # pseudo-models.py
    
    class CeramicClass(models.Model):
        '''A wide category of ceramic items, comprising many forms.'''
    
        name = models.CharField()
    
    class CeramicForm(models.Model):
        '''A ceramic form. Totally different from CeramicType.'''
    
        name = models.CharField()
    
    class CeramicType(models.Model):
        '''A ceramic type. Whatever that means.'''
    
        name = models.CharField()
        ceramic_class = models.ForeignKey(CeramicClass)
        ceramic_form = models.ForeignKey(CeramicForm)
        source_ref = models.URLField()
    
    class ArcheoSite(models.Model):
        '''A friendly, muddy, rotting archaeological site.'''
    
        name = models.CharField()
    
    class CeramicFind(models.Model):
        '''The real thing you can touch and look at.'''
    
        ceramic_type = models.ForeignKey(CeramicType)
        archeo_site = models.ForeignKey(ArcheoSite)
        ... # billions of other fields