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  • Lo #Scriptorivm dei miracoli

    Lo #Scriptorivm dei miracoli

    Ecco, sono di nuovo arrivato ultimo anche su Medium. Giovedì scorso
    ero arrivato per ultimo a Pompei, a notte ormai fonda, complice
    ritardo epico del Frecciarossa 1000. Venerdì mattina, quando ho
    incontrato Augusto e poi tutti gli altri compagni scriptores, ero
    visibilmente assonnato, tanto da conferire un sapore onirico al
    ritrovare previsto e imprevisto di vecchi amici, qualcuno in carne e
    ossa, qualcuno materializzato per la prima volta a Pompei da una
    istruzione PROJ4 benevola.

    Se non avete ancora letto la versione dei fatti di Paola Romi (1, 2),
    Paola Liliana Buttiglione, Marco Montanari, fatelo ora. Io posso solo
    confermare che non ci eravamo quasi mai visti e abbiamo passato 48 ore
    a “smanettare” gomito a gomito, tra ciliegie, taralli e tanto
    caffé. Che il nostro obiettivo, un po’ scelto da noi e un po’
    assegnato dagli organizzatori, era quello di dare a tutti (a tutti!)
    la possibilità di vedere da vicino la sterminata mole di letteratura
    accademica su Pompei, sui singoli edifici così come sulle
    infrastrutture. A tutti vuol dire: agli studiosi, agli studenti, ai
    visitatori, a chi tiene in piedi Pompei, a chi la ama, a chi ci vive.

    Come nei Simpson, per la maggior parte dello Scriptorivm le
    proporzioni di genere nella track Archæologica Academia erano 3
    a 2. Come nei Simpson, alcuni di noi pigiavano bottoni con effetti a
    migliaia di km di distanza, e scrivevano in modo ripetitivo le stesse
    frasi su una lavagna senza fine. Poi c’erano le archeologhe, di cui
    due pompeianiste DOCG (Paola Romi e Luana Toniolo, che a Pompei ci
    lavora) e una smanettona ritrovata archeologa. Il loro entusiasmo è
    travolgente come un’auto guidata da una bambina, un assolo jazz, una
    città che rinasce. Io, che mi faccio chiamare steko ma in realtà sono
    nato a Genova, sono uno di quelli che trascorrono ore interminabili
    davanti a uno schermo scuro, on my own, e a Pompei ho visto con i miei
    occhi la conoscenza condivisa che si faceva codice eseguibile, dato
    aperto. Beati quelli che, pur vedendo solo il risultato, ci
    crederanno.

    Nessuno si è alzato dal tavolo senza aver imparato qualcosa: Zotero,
    le insulae, l’età post-sismica, il web scraping, le case editrici sono
    antipatiche. Tutti abbiamo abbracciato il culto di san Eric Poehler da
    Massacciuccoli, facendoci tatuare sui polpacci la chiave API della sua
    utenza Zotero, da cui abbiamo attinto a piene mani per creare il
    prototipo della mappa / linea del tempo. Lo Scriptorivm è quel posto
    magico dove se sbagli e dici “due regio” invece che “due regiones”
    nessuno si offende, e magari ti spiega anche perché dovresti dire
    regiones, ché la lingua latina non è volgare. Dove davanti a una
    operazione tecnicamente impegnativa, nessuno si tira indietro e ci si
    impadronisce insieme della tecnica. Dove devono venire a tirarti via
    dalla sedia per la pausa pranzo perché vuoi assolutamente finire
    quello che stai facendo. Dove presentiamo agli altri partecipanti
    scriptores quello che abbiamo fatto ma nel frattempo Marco Montanari,
    da Bologna, continua a sviluppare l’applicazione web.

    Lo Scriptorivm è contagioso: che nessuno venga a guarirci!

  • Archeostorie a Genova

    Archeostorie a Genova

    Il 7 maggio 2015 la tournée di Archeostorie ha fatto tappa a Genova. Grazie a Fabio Negrino, ci siamo trovati in una gremita aula universitaria in via Balbi 2. Per via dell’incendio che era scoppiato a Fiumicino nella notte, Cinzia Dal Maso è rimasta bloccata a Roma, e a rappresentare Archeostorie c’erano Francesco “Cioschi” Ripanti, Marina Lo Blundo e il sottoscritto.

    Anche se è passato qualche giorno ho ancora addosso l’entusiasmo per la bella giornata e serata di giovedì scorso. Entusiasmo anzitutto per tutte le persone che sono venute ad ascoltare, e soprattutto a dire la loro.

    Silvia Pallecchi ci ha regalato una emozionata orazione, ci ha spiegato meglio di come avremmo saputo fare noi che Archeostorie parla di due mondi fatti di mestieri codificati e mestieri non codificati, che devono parlare, che i mestieri non (ancora) codificati sono difficili ma necessari carburanti per il rinnovamento. Eleonora Torre ci ha parlato senza filtro di cos’è l’archeologia fuori dagli uffici, dalle aule, con i piedi nella terra e la testa salda sul collo ‒ Eleonora ci ha anche strappato un applauso spontaneo e perentorio quando ha ricordato ai più giovani l’importanza di avere dei maestri, come è stato per tanti di noi Tiziano Mannoni. Marta Conventi ci ha raccontato che l’idea di una archeologia che cerca il suo pubblico ha già messo radici solide anche in Soprintendenza. Vincenzo Tiné non ha fatto sconti nel descrivere tutte le difficoltà che, anche con le migliori intenzioni e capacità, gli archeologi dovranno affrontare nell’immediato futuro se vorranno trasformare la parola in azione, proprio a partire dalle Soprindentenze amputate della valorizzazione. Andrea De Pascale, che tante delle storie del libro le ha già messe in pratica al Museo Archeologico del Finale, ci ha confortato, ci ha detto che sì, questa è la strada giusta e i musei devono essere luoghi in cui sono prima di tutto le persone a parlare con il pubblico. Fabio Negrino ci ha guidato lungo questa lunga chiacchierata, raccontando al pubblico come questi 34 autori si siano trovati dietro la stessa copertina (per chi se lo fosse perso, è stato il Day of Archaeology 2014 a far scoccare la scintilla), e anche di come aver accettato a scatola chiusa di organizzare questo incontro si sia rivelato un buon investimento. Tanti altri sono intervenuti, chi per raccontare la sua (archeo)storia, chi per ricordarci di non perdere di vista la ricerca archeologica che è “l’arrosto” della situazione, chi per fare domande o semplicemente condividere un pensiero in libertà. Archeostorie ne è uscito non più come un libro, ma un invito a discutere, a confrontarsi e costruire qualcosa di nuovo. Un manuale di idee, di sopravvivenza. Un manuale per il futuro, su cui forse nei prossimi anni qualcuno potrà studiare, non per trovare regole e prescrizioni, ma idee… asce di guerra come mi piace dire.

    A distanza di qualche giorno, credo che non potessimo sperare di meglio, tanto più che abbiamo venduto anche tantissime copie del libro. A occhio credo ci fossero 80 persone, dagli studenti liceali ai padri fondatori dell’archeologia medievale, dagli archeologi del paleolitico a quelli dell’età contemporanea ‒ e questo secondo aspetto non è da poco visto che gli autori del libro, per quanto numerosi, non abbracciano certamente l’ampiezza di studi, tradizioni e passioni che c’è nell’archeologia italiana. Per chi ha la memoria lunga, questa presentazione è stata un ritorno su uno dei tanti possibili luoghi del delitto per la filogenesi di Archeostorie: a Genova, dal 2005, al grupporicerche, prima Matteo Sicios e qualche anno dopo Marina Lo Blundo iniziavano a parlare di “Comunicare l’archeologia”, di sdoganare l’archeologo-che-comunica come una figura legittima. Anche Matteo era lì nell’aula.

    La registrazione video che ho fatto è finita su Youtube: anche se l’audio non è particolarmente buono mi sembrava importante che ci fosse una memoria di quello che ci siamo detti. Sono quasi tre ore ininterrotte di dialogo.

    Mentre tornavamo in macchina a Torriglia con Francesco ho cercato di spiegargli quanto fosse particolare avere così tanti archeologi liguri, di tutte le età e formazioni, insieme per una volta non solo ad ascoltare ma a dialogare. Francesco mi ha detto che aveva capito che c’era stato qualcosa di speciale anche per noi genovesi nel ritrovarsi a parlare del futuro dell’archeologia. Sarà che nelle tappe precedenti non si erano visti gli studenti intervenire e dire la loro, sarà che alcune delle storie del libro hanno toccato delle corde importanti per tanti di noi. Per me era una giornata speciale, ho visto sedute nella stessa stanza tante persone con cui ho condiviso parti della mia vita e che mi hanno insegnato qualcosa, come archeologo e come persona, prima a Genova, dentro l’università e soprattutto fuori, poi a Siena e infine di nuovo a Genova. Alcuni di noi hanno proseguito l’incontro a cena, di nuovo senza distinzione di età né specialismi ‒ insomma, tira una bellissima aria a Genova e spero che non vada persa come a volte è successo in passato. Si è parlato molto di passione, e spero che il 7 maggio per qualcuno si sia (ri)accesa un po’ di passione per l’archeologia fatta non solo di esami, crediti formativi, riunioni di dipartimento, pubblicazioni specialistiche, atti amministrativi e bilanci striminziti.

    Nel frattempo Archeostorie si è meritato uno spazio su Repubblica (e non so cosa dire sui quotidiani genovesi a cui ho mandato il comunicato stampa sulla presentazione, ma lasciamo perdere), e a breve inizierà a circolare la ristampa. Avanti così, che l’inse.

  • Tipografia elettorale: le elezioni regionali in Liguria

    Tipografia elettorale: le elezioni regionali in Liguria

    Anche in Liguria stanno per arrivare le elezioni regionali. Se votassero i tipografi, vincerebbe Raffaella Paita. Le elezioni vere sono un’altra storia.

    La partenza delle campagne per le presidenziali USA di Hillary Clinton e Marco Rubio ha destato un po’ di interesse per la tipografia anche sui media generalisti. Facciamo una panoramica dei principali candidati per la Liguria, in rigoroso ordine di sondaggio.

    Nexa

    imageRaffaella Paita, candidata per il PD, usa Nexa, disegnato da Font Fabric nel 2012. È un font geometrico moderno, con una ampia gamma di pesi. La campagna di Paita sfrutta Nexa in modo pervasivo, adottandolo sia in maiuscolo grassetto per lo slogan e il cognome, sia in minuscolo per il testo ‒ incluso quello sul sito web, con l’intera gamma di pesi disponibili. Nonostante sia un font geometrico, Nexa è abbastanza leggibile anche per testi di lunghezza media, soprattutto nei pesi più sottili, anche se non risulta necessariamente gradevole.

    Block Condensed

    imageGiovanni Toti, candidato di Forza Italia, usa Block Condensed, disegnato da Hermann Hoffmann nel 1908 e distribuito da molte case tipografiche, tra cui Linotype e Adobe. Il manifesto è scritto interamente in lettere maiuscole, ad eccezione dei riferimenti social, e non risulta un sito web ufficiale della campagna.

    Block è un font senza grazie dai bordi leggermente frastagliati, che conferiscono un aspetto vagamente rustico, più caldo rispetto alla maggior parte dei caratteri senza grazie. La leggibilità è garantita soprattutto dall’uso esclusivo delle maiuscole.

    Kabel

    Alice Salvatore è la candidata del Movimento 5 Stelle e usa Kabel, disegnato da Rudolf Koch nel 1927. Kabel è un font geometrico umanistico, oggi distribuito da diverse case tipografiche. Ad un occhio inesperto, Kabel non è particolarmente diverso da Nexa, e questa convergenza è interessante (lascio ad altri valutazioni sulla tempistica delle scelte tipografiche), se consideriamo che questo genere di font può trasmettere sensazioni di modernità, efficienza, precisione.

    cropped-alice_copertinaLa campagna di Salvatore usa Kabel in lettere maiuscole e minuscole, nel peso standard. Le lettere minuscole non sono particolarmente leggibili, in particolare con la spaziatura tra lettere ridotta: il risultato non è dei migliori. Non vengono sfruttati i diversi pesi a disposizione in molte delle versioni digitali del font.

    ~

    Se dovessi votare adesso, la campagna elettorale tipografica sarebbe vinta da Raffaella Paita. Paita usa un font moderno, creato da una type foundry giovane che sforna font apprezzatissimi, e non è nemmeno un caso che il font ufficiale di Hillary Clinton sia molto simile. La campagna nel suo complesso è la meglio studiata dal punto di vista tipografico, integrata senza troppe sbavature tra i diversi media (anche se sia Paita che Salvatore usano WordPress per i loro siti web, la campagna M5S è più “minimal”). Il rovescio della medaglia è che probabilmente Paita ha investito più risorse degli altri candidati nella creazione di una campagna di comunicazione professionale di alto livello, nella diffusione del proprio slogan ‒ mentre gli altri due candidati qui considerati inseriscono lo slogan nel proprio manifesto sotto forma di #hashtag , in una sorta di chiamata all’azione per i propri potenziali elettori, forse già un po’ trita per chi gli hashtag li usa davvero.

    Nelle prossime settimane, se ci sarà il tempo, guarderemo anche gli altri candidati alla presidenza, e qualche candidato al consiglio regionale (anche se quello che ho visto finora è molto noioso).

    Le elezioni vere sono tutta un’altra storia.

  • Debian Wheezy on a Fujitsu Primergy TX200 S3

    Debian Wheezy on a Fujitsu Primergy TX200 S3

    Debian Wheezy runs just fine on a Fujitsu Primergy TX200 S3 server

    A few days ago I rebooted an unused machine at work, that had been operating as the main server for the local network (~40 desktops) until 3 years ago. It is a Fujitsu Primergy TX200 S3, that was in production during the years 2006-2007. I found mostly old (ok, I can see why) and contradictory reports on the Web about running GNU/Linux on it.

    This is mostly a note to myself, but could serve others as well.

    I chose to install Debian on it, did a netinstall of Wheezy 7.8.0 from the netinst CD image (using an actual CD, not an USB key) and all went well with the default settings ‒ which may not be optimal, but that’s another story. While older and less beefy than its current HP companion, this machine is still good enough for many tasks. I am slightly worried by its energy consumption, to be honest.

    It will be used for running web services on the local network, such as Radicale for shared calendars and address books, Mediagoblin for media archiving, etc.

  • Quanti visitatori nei musei di Genova?

    Quanti visitatori nei musei di Genova?

    In attesa che vengano pubblicati i dati aggiornati al 2014, diamo uno sguardo ai dati numerici sui visitatori nei musei civici di Genova negli ultimi anni. La situazione è stabile, ma sembra esserci una stagnazione e l’Acquario non gira. Purtroppo, mancano i dati su Palazzo Ducale.

    Visitatori nei musei civici e Acquario di Genova 1996-2013
    Visitatori nei musei civici e Acquario di Genova 1996-2013

    Nel 2004 Genova è stata Capitale Europea della Cultura. Ce lo ricordiamo bene. I cantieri che sembravano infiniti, le facciate riportate a lustro, le inaugurazioni, le mostre. Qualcosa è rimasto, Genova adesso è una meta turistica, sia per gli italiani sia per gli stranieri. La ricettività inizia a stare al pari con la domanda. Abbiamo un city brand. Ma i musei non sono solo turismo, sono prima di tutto dei cittadini, delle scolaresche che si spostano rumorosamente in autobus, dei gruppi di mezza età, delle famiglie. Quante persone visitano i musei di Genova?

    Dove sono i dati

    Stuzzicato dagli open data rilasciati dalla Fondazione Torino Musei, che peraltro non sono aggiornati da più di un anno, ho cercato quel che c’era in rete sui musei genovesi, quelli civici in particolare (ci sono anche Palazzo Spinola e Palazzo Reale, statali, i cui dati di affluenza sono disponibili). Forse sembrerà ovvio, ma ho trovato davvero poco, veri e propri dati sparsi.

    I dati dal 2004 al 2013 sono compresi nell’Annuario statistico del Comune di Genova (un file XLS dentro uno ZIP). I dati sui musei sono nel file 06 ISTRUZIONE E CULTURA/6.2 Cultura/TAV 07.XLS. Quelli sull’Acquario sono nel file 12 TURISMO/TAV13.XLS.

    Per qualche motivo i dati sui musei dal 1996 al 2008 sono nelle serie storiche (link diretto al file XLS). Le stesse serie storiche abbracciano gli anni dal 1993 al 2008 per l’Acquario (link diretto al file XLS).

    Nel Notiziario statistico n° 3 del 2014 (file PDF) troviamo i dati sul turismo, che includono i visitatori mensili dell’Acquario nel 2013 e fino a settembre 2014, ma non quelli dei musei.

    Il dettaglio maggiore di cui disponiamo è quello mensile per l’Acquario negli ultimi 21 mesi, mentre in tutti gli altri casi siamo fermi al numero totale di visitatori annuali per singolo museo. È difficile fare qualunque valutazione in rapporto agli afflussi turistici, se non a livello molto generale, quindi in questa puntata non ne parlerò proprio.

    I dati sparsi vanno ripuliti e ricomposti per essere elaborati. È un lavoro lento e noioso, in cui sicuramente si possono fare errori. Quello che ho ripulito per ora è in questo repository su GitHub, ovviamente in formato CSV.

    Cosa dicono i dati

    Una premessa doverosa: i numeri sono, per l’appunto, numeri. Un museo poco visitato non è più brutto degli altri, né gestito da persone meno competenti, impegnate, capaci.

    I musei di Genova ospitano collezioni uniche, e soprattutto organizzano una quantità incredibile di eventi ‒ ogni settimana sono decine e spaziano da incontri serali a visite guidate, presentazioni, concerti, laboratori per grandi e piccoli. Nell’ultima newsletter che ho ricevuto posso contare 16 mostre in corso.

    Ricordatevene leggendo il seguito.

    I musei

    Il 2004 ha segnato in positivo un punto di non ritorno per la maggior parte dei musei civici genovesi. Il balzo è evidente dal grafico.

    Visitatori nei Musei civici di Genova 1996-2013
    Visitatori nei Musei civici di Genova 1996-2013

    Il dettaglio dei singoli musei è un po’ meno brillante, perché si vedono tramontare realtà come il Museo di di storia e cultura contadina e il Museo di arte contemporanea. Il Galata Museo del mare è in affanno (non sorprendente considerati i numeri dell’Acquario?), anche se rimane il museo più visitato.

    Molti musei hanno andamenti altalenanti, magari legati a mostre (↑) o chiusure (↓) temporanee, su cui naturalmente sarebbe importante avere dati.

    Visitatori nei musei di Genova: il dettaglio dei singoli musei (1996-2013)
    Visitatori nei musei di Genova: il dettaglio dei singoli musei (1996-2013)
    I Numeri solidi

    I numeri più solidi a mio parere sono quelli dei musei di Storia naturale e di Sant’Agostino, gli unici ad avere una quantità considerevole di visitatori associata ad una crescita costante negli ultimi anni. Anche il Museo di Arte Orientale ha avuto un buon andamento nell’ultimo periodo. Sono queste le realtà che meriterebbero di essere analizzate più in dettaglio per individuare fattori positivi su cui costruire, volendo, una strategia più ampia.

    L’Acquario

    L’Acquario di Genova non è un museo, almeno non nella tradizionale accezione italiana. Il numero di visitatori dell’Acquario è in calo costante. Dopo il 2004 solo nel 2007 e nel 2013 si è registrato un lieve aumento, ma non ci sono segnali di inversione della tendenza ‒ alla stagnazione più che al ribasso, perché comunque si tratta di una realtà molto forte che non può scomparire da un momento all’altro. Rimane il dubbio sulla sostenibilità di questa impresa, che ha costi altissimi per i visitatori  (24 €) ed evidentemente non riesce a trainare da sola il resto della città, pur rimanendo di gran lunga la struttura più visitata con circa un milione di visitatori ogni anno. Sicuramente sarà la struttura che beneficerà maggiormente dell’afflusso di Expo, e i filmati pubblicitari sono già diffusi nelle stazioni ferroviarie e in altri spazi affollati. Come la Capitale Europea della Cultura, anche Expo può dare uno slancio di medio periodo, ma solo se si saprà lavorare con le lenti multifocali.

    Visitatori Acquario di Genova 1994-2013
    Visitatori Acquario di Genova 1994-2013

    Cosa manca

    I grandi assenti di questa panoramica sono naturalmente i dati su Palazzo Ducale, che non è un museo vero e proprio ma è il principale spazio culturale pubblico della città. Dobbiamo accontentarci di notizie (500mila visitatori nel 2012, chiusura record con 125mila visitatori per Frida Kahlo) ma da una fondazione pubblica sinceramente vogliamo molto di più. Ci vogliono gli open data.

    ~

    Questo post è il primo con l’hashtag #d969humanities. Stay tuned.

    La foto di copertina è “Genova, more than this?”. L’ho scattata io qualche mese fa.

  • Postcards from 1910

    Postcards from 1910

    Digital humanities start at home. I present a small collection of postcards dating from 1908 to 1913, that I scanned yesterday as part of a larger collection of 50 letter envelopes (and few actual letters) that ‒ I think ‒ were sent or brought back to Italy when a relative of ours, Enrichetta Costa, passed away in the U.S. in 1923.

    These postcards are mostly conveying short messages, greetings, recounts of happy moments, and they often mention being in good health. Some of them are written in English, some in Italian, showing both a desire to become one with American culture and the need to stay in contact with families at home. These postcards are glimpses in the life of young women in their 20s, who had recently moved overseas. Looking at post office stamps, one gets the idea of such postcards as “short messages” that were sent from a nearby town, or from another neighbourhood of N.Y, and apparently could take as little as 12 hours to get to their destination.

    The 1913 postcard is actually Italian and was sent from Torriglia to Genoa, where Enrichetta was staying. One has to think she brought the postcard back to the U.S. upon leaving Italy one more time.

    It’s tempting to try building social networks from these letters and postcards, and I already started playing with TimeMapper to follow her across the years, even though the bulk of material (that is, the envelopes… but see how I already detached from the emotional value of the object?) is from 1910. Between March and April 1910 she moved from Baxter Street in New York City to the borough of Woodhaven, but only a few months before she was still in Kingston, N.Y.

    I’m sure there is abundant literature on the subject of life of immigrants in the U.S. West Coast, but the afternoon I spent with my old Epson scanner gave me a lot of time to think about the social struggles of the time ‒ after all she was coming from a family of peasants and had moved overseas at 16 years ‒ and how her personal history became increasingly detached from that of her family of origin, at the same time having strong ties to the immigrant community from Torriglia that had formed around N.Y., until the final letter confirming her death, signed by her friend Cornelia Sciutto (a surname that is highly characteristic of a village nearby Torriglia), otherwise unknown.

    I also came across more mundane problems like what is the best way to present digitally these envelopes. I think we should try using animated GIFs like this one. The original images of the front and back side can be easily retrieved with any image editing software (GIMP in my case) but it’s easier to keep the two sides together, without resorting to ugly non-image formats like PDF. A delay of 3 seconds should work fine for most cases, but it can be adjusted accordingly. It would be rather pointless, but fascinating, to go further and create 3D scans of the envelopes ‒ an unwieldy task for something that is normally flat, on a flat surface, with no tangible “volume”.

    There are other issues with publishing these scans, namely exposing the intimate life of people who have been dead for less than 100 years. Surely no one on Facebook cares that their great-grandchildren will be able to sift through their silly day to day chat messages, but today’s assumptions are not good for last year, let alone last century. I’m relieved by the fact that I have almost only addresses, and names, and post stamp dates ‒ and part of me wants someone in Kingston, N.Y. or Woodhaven to recognise one of those names as a distant relative, a long-forgotten ancestor who was friends with Henrietta Costa. If you’re that someone, it would be nice to get in touch, and the sunny Sunday afternoon I spent scanning was not entirely lost.

    In any case, enjoy the postcards!

  • L’archeologa. Un topos narrativo piccolo e schifoso

    Sembra che a due famosi autori italiani sia piaciuto specificare che la coprotagonista femminile di un loro lavoro è laureata in archeologia. Detta così non c’è niente di male, ma in effetti non mi piace.

    Che la pop fiction italiana sia in stato comatoso non sono io a dirlo, ma lo ripeto volentieri, come preambolo.

    La piaga in cui oggi vorrei mettere il dito è la “laureata in archeologia”, ed è un topos narrativo piccolo piccolo, un topolino, ma anche schifoso. Dico che è piccolo perché l’ho trovato solo due volte. E magari sono il 100%, non so.

    Ma Lucarelli e Carofiglio sono due autori importanti, no? Mi dico che vale la pena di buttare giù questi pensieri.

    Ecco qui la prima apparizione: la seconda puntata della seconda serie dell’ispettore Coliandro (2×02), “Sesso e segreti”. La bella Claudia è la gnocca dell’episodio: è laureata in archeologia, ma preferisce giustamente guadagnare 5000 € a serata come escort piuttosto che fare la fame da archeologa. Chiaramente, lui si invaghisce di lei, lei di lui e vanno a letto.

    La seconda apparizione, più recente, è nell’ultimo di Carofiglio, “La regola dell’equilibrio”, una performance piuttosto imbolsita, fitta di autocompiacimento (soprattutto letterario-musicale) e cliché, sceneggiatura televisiva anzi che no. E la coprotagonista, l’inverosimile e poliedrica Annapaola Doria, è laureata in Archeologia (con la A maiuscola). Tra l’altro proprio nella pagina successiva gliela dà.

    imageOvviamente diciamo subito che non mi è piaciuto trovare questo accostamento, che è per di più un inutile orpello, visto che entrambi i personaggi potrebbero filare tranquillamente senza avere una laurea, o comunque senza averla in archeologia. Non ho niente contro le sex workers belle e spregiudicate, né con le investigatrici private dalla vita amorosa avventurosa. Anzi, proprio perché usare queste due categorie come stereotipo è già penoso, mi sembra ancora più scemo aggiungerci sopra la laurea in archeologia come peperoncino. Certo, la narrativa pop è fatta tessendo stereotipi, quindi da qualche parte dovranno pur pescare…

    La laurea in archeologia è sensuale? Esotica? La laurea in archeologia qualifica una persona come … sognatrice? investigatrice? attraente? procace? arrapata? Provo a domandarmelo, a concentrarmi non tanto sulle archeologhe vere, perché che siano un’altra cosa è fuori discussione, ma sulla percezione che il pubblico ha di chi segue questa strada, anzitutto dando per scontato che non ci sia modo di farlo davvero, l’archeologa (o, casomai, che un’archeologa non sia compatibile con una trama pop, anche di genere). Oppure sbaglio tutto, dovrei provare compiacimento? Magari ci sono altre categorie più tartassate e nemmeno lo so, non ci ho mai fatto caso.

  • Libri che ho letto nel 2014

    Libri che ho letto nel 2014

    Nel 2014 ho letto veramente poco. Un elenco abbastanza stringato:

    • La prosivendola, Daniel Pennac
    • Alta fedeltà, Nick Hornby
    • Il gioco grande del potere, Sandra Bonsanti
    • Per questo ho vissuto, Sami Modiano
    • È il tuo giorno, Billy Lynn, Ben Fountain
    • Baudolino, Umberto Eco
    • L’armata dei sonnambuli, Wu Ming

    Archaeology stuff:

    • In small things forgotten, Jim Deetz
    • Punk Archaeology, Bill Caraher, Kostis Kourelis, Andrew Reinhard

    Letture post-pedeutiche al viaggio in Patagonia, è stato anche meglio che leggerli prima:

    • In Patagonia, Bruce Chatwin
    • Patagonia, Chris Moss

    Saggi, uno solo ma fondamentale:

    • Capital in the 21st century, Thomas Piketty

    Se non vi scoccia ascoltare un consiglio, leggete Capital 21C, o almeno dedicate 20 minuti alla supersintesi video. Oppure al riassunto scritto di Cory Doctorow.

  • MAO Torino – Klavika

    View post on imgur.com

    The room signs and panel headings at the MAO Torino are typeset in Klavika.

  • Flickr selling prints of Creative Commons pictures: a challenge, not a problem

    Flickr selling prints of Creative Commons pictures: a challenge, not a problem

    A few weeks ago Flickr, the most popular photo-sharing website, started offering prints of Creative Commons-licensed works in their online shop, among other photographs that were uploaded under traditional licensing terms by their authors.

    In short, authors get no compensation when one of their photographs is printed and sold, but they do get a small attribution notice. It has been pointed out that this is totally allowed by the license terms, and some big names seem totally fine with the idea of getting zero pennies when their work circulates in print, with Flickr keeping any profit for themselves.

    Some people seemed actually pissed off and saw this as an opportunity to jump off the Flickr wagon (perhaps towards free media sharing services like Mediagoblin, or Wikimedia Commons for truly interesting photographs). Some of us, those who have been involved in the Creative Commons movement for years now, had a sense of unease: after all, the “some rights reserved” were meant to foster creativity, reuse and remixes, not as a revenue stream for Yahoo!, a huge corporation with no known mission of promoting free culture. I’m in the latter group.

    But it’s OK, and it’s not really a big deal, for at least two reasons. There are just 385 pictures on display in the Creative Commons category on the Flickr Marketplace, but you’ve got one hundred million images that are actually available for commercial use. Many are beautiful, artistic works. Some are just digital images, that happen to have been favorited (or viewed) many times. But there’s one thing in common to all items under the Creative Commons label: they were uploaded to Flickr. Flickr is not going out there on the Web, picking out the best photographs that are under a Creative Commons license, or even in the public domain, I guess they are not legally comfortable with doing that, even if the license totally allows it. In fact, the terms and conditions all Flickr users agreed to state that:

     

    […] you give to Yahoo the following licence(s):

    • For photos, graphics, audio or video you submit or make available on publicly accessible areas of the Yahoo Services, you give to Yahoo the worldwide, royalty-free and non-exclusive licence to use, distribute, reproduce, adapt, publish, translate, create derivative works from, publicly perform and publicly display the User Content on the Yahoo Services

    That’s not much different from a Creative Commons Attribution license, albeit much shorter and EULA-like.

    In my opinion, until the day we see Flickr selling prints of works that were not uploaded to their service, this is not bad news for creators. Some users feel screwed, but I wouldn’t be outraged, not before seeing how many homes and offices get their walls covered in CC art.

    The second reason why I’m a bit worried about the reaction to what is happening is that, uhm, anyone could have been doing this for years, taking CC-licensed stuff from Flickr, and arguably at lower prices (17.40 $ for a 8″ x 10″ canvas print?). Again, nobody did, at least not on a large scale. Probably this is because few people feel comfortable commercially appropriating legally available content ‒ those who don’t care do this stuff illegally anyway, Creative Commons or not. In the end, I think we’re looking at a big challenge: can we make the Commons work well for both creators and users, without creators feeling betrayed?

    Featured image is Combustion [Explored!] by Emilio Kuffer.