È finita a Torino la mostra “Africa. Le collezioni dimenticate” allestita nelle sale di Palazzo Chiablese. Sono riuscito a visitare la mostra pochi giorni fa. Mi è piaciuta molto.
La mostra è stata organizzata dai Musei Reali di Torino, dalla Direzione Regionale Musei Piemonte e dal Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, ed è una intensa passeggiata nel voyeurismo e collezionismo italiano durante il lungo periodo della scoperta, conquista e razzia dell’Africa, fino agli orrori della guerra in Etiopia. Il percorso si snoda sui passi di molti personaggi, tutti uomini italiani: esploratori, ingegneri al servizio dell’espansione belga nel Congo, affaristi, membri della casa reale. Tutti accomunati dall’attività coloniale nelle sue diverse fasi storiche, e tutti prontamente rimossi dalla memoria collettiva al termine della seconda guerra mondiale. Altrettanto dimenticate le collezioni di oggetti africani che questi personaggi hanno fatto confluire a vario titolo nei musei italiani e in questo caso piemontesi.
Ad accompagnare la visita le installazioni di Bekele Mekonnen, in particolare il “site specific” dal titolo “The smoking table” ma anche le clip sonore lungo il percorso.
La mostra ha agitato tantissimo i fascisti dichiarati e quelli non dichiarati perché non usa giri di parole, perché chiama il colonialismo e il razzismo con il loro nome, perché mette le voci africane sullo stesso piano di quelle italiane. Il ricco programma pubblico ha coinvolto molte persone, anche originarie dell’Africa.
Parte dell’installazione “The smoking table” con scritte di colori diversi. In rosso sotto un braccio muscoloso: conspiracy, betrayal, greed, injustice, deception. In azzurro sotto due mani strette: honesty, fraternity, generosity, impartiality”
Le polemiche, tutte politiche e ben poco culturali, suonano come un brusio fastidioso se consideriamo il lavoro lunghissimo di preparazione della mostra, la quantità di musei con collezioni africane in tutto il Piemonte, la ricchezza del catalogo che affronta in dettaglio molte delle questioni sollevate ad arte, ad esempio il salario pagato ai lavoratori della Società Agricola Italo-Somala, veri “forzati della terra” anche nelle parole degli italiani dell’epoca.
Il paradosso sta nel fatto che questa mostra è molto blanda, se la inquadriamo nella cornice europea e occidentale bianca dei musei di antropologia e archeologia: dalla complessa operazione di continuo adattamento del Musée du Quai Branly di Parigi, al documentario Dahomey di Mati Diop che ha vinto l’Orso d’oro del Festival di Berlino pochi giorni fa, per finire al lavoro avviato nel 2016 da quello che oggi si chiama Museo delle Civiltà. È molto eloquente l’intervento del direttore Andrea Villani a un convegno di poche settimane fa, che potete rivedere su YouTube. Ho apprezzato questo passaggio:
Quello che allora aveva un senso oggi può non solo non avere un senso, ma può anche essere tossico. [..] La storia non si cambia. I musei non cambiano la storia, ma possono raccontarla per intero, accettando di mettere in crisi quello che è venuto prima
Questo articolo è stato scritto nel 2012 ed è rimasto in bozze per 8 anni. Mi pare ancora degno di vedere la luce del sole e lo pubblico tale quale con qualche aggiornamento ai link.
Il primo punto importante, che ho dato per scontato in precedenza, è che tutto questo ragionamento si applica a quel particolare sottoinsieme dell’archeologia rappresentato dalla ricerca universitaria o accademica in genere, l’unica che in modo sistematico si dedica alla ricerca sul campo all’estero.
Non penso che ci siano davvero parametri per giudicare se un ricercatore o un gruppo di ricerca siano colonialisti o meno. I problemi di cui ho parlato sono dei temi di riflessione, che conducono il discorso nell’ambito della questione colonialista e fanno diventare una gomena il filo che nessuno può negare ci leghi al colonialismo con la F maiuscola. Sul rapporto tra colonialismo e fascismo di ieri nell’Italia di oggi ci sono spunti in più di un punto di questa intervista a Wu Ming 2. Incluso un riferimento alla rivista Interventions: international journal of postcolonial studies, purtroppo costosissima.
Avere una pratica colonialista facendo archeologia a volte è semplicemente un fatto. Non essere colonialisti facendo archeologia nel Mediterraneo è difficile, secondo me. Avere una teoria colonialista è una cosa diversa.
Io penso che nel ventunesimo secolo la parola chiave sia strumentalità: ovvero intendere un luogo, con il suo patrimonio archeologico, semplicemente come uno strumento (indispensabile) per condurre la propria ricerca e per accrescere il proprio prestigio accademico. È evidente che questo concetto non è limitato alle ricerche svolte all’estero, e già questo mi sembra un elemento molto importante, perché apre la strada ad una riflessione sul “colonialismo dietro casa”, sugli archeologi che arrivano da fuori a imporre la loro agenda ad una comunità, a una società.
Va considerato il punto importante dei finanziamenti per la ricerca. In Italia una parte importante della ricerca all’estero è finanziata dal Ministero degli Esteri (il quadro è ben documentato sul sito web del Ministero). Di questo tema ho avuto modo di parlare con Andrew Bevan alcuni mesi fa. Il confronto con le esperienze straniere ‒ in modo particolare di ex (?) potenze coloniali ‒ è importante ma per qualche motivo mi voglio soffermare sull’Italia e sugli italiani.
Il discorso sulla ricerca dell’esotico è molto complesso, e probabilmente va nella direzione di una riflessione più profonda sull’identità. Ma identità personale e identità politica si incontrano sempre, anche quando non vorremmo.
E non dimentichiamo infine di pensare anche all’Italia colonizzata. Non credo esista un elenco di tutte le missioni di ricerca archeologica straniere in Italia. Ma certamente sarebbe interessante averlo, e sarebbe molto lungo. Non solo si scava e si cammina per l’Italia, ma si organizzano anche incontri di alto profilo (e non da ieri).
Quando due anni fa ho pubblicato su questo blog un racconto iper-dettagliato su alcuni piatti marchiati Società Ceramica Italiana non avrei mai pensato che quel racconto sarebbe diventato di gran lunga la pagina più visitata di questo piccolo blog. Era inaspettato, mi ha messo in contatto con altre persone molto più competenti di me sull’argomento, ma soprattutto mi ha incoraggiato a coltivare l’interesse verso le ceramiche di età contemporanea. Oggi vi racconto una storia un po’ meno personale ma abbastanza simile e altrettanto interessante.
Parliamo di un piatto prodotto a Mondovì dalla manifattura Alessandro e Cesare Musso tra il 7 dicembre 1895 e il 1 marzo 1896. Non è molto frequente avere una indicazione cronologica così precisa per la produzione di un manufatto industriale di massa ‒ e si tratta di una cronologia indiretta ma rigorosa. Ma andiamo con ordine.
La scorsa primavera ho riordinato per lavoro alcuni reperti in ceramica provenienti da uno scavo urbano effettuato a Oneglia tra 2010 e 2011 ‒ con una documentazione fotografica preliminare. Un lavoro molto semplice e ovviamente superficiale. Non potevano comunque sfuggirmi i due frammenti di questo piatto, che raffigurano una divisa militare e una approssimativa carta geografica con nomi chiaramente etiopi come Doba, Ender[a], Ezba, Amba. Su un frammento della tesa si legge “maggiore”. Vi basti che stavo leggendo Point Lenana proprio nello stesso periodo.
Ho cercato un po’, ho trovato il libro Ceramiche patriottiche e militari dell’Italia contemporanea di Roman H. Rainero (edito nel 2008) e ho deciso che lì potevo trovare qualche notizia in più. Il libro non è molto diffuso ma l’ho trovato nella bellissima biblioteca dell’Istoreto di Torino. E nel libro ho trovato il piatto, ovviamente.
In biblioteca all’Istoreto con il libro e le foto del piatto
Il piatto è stato prodotto dalla manifattura di Alessandro e Cesare Musso a Mondovì, come indicato nel marchio a inchiostro. Questa manifattura non compare nell’Archivio della ceramica italiana del ‘900, forse perché chiuse i battenti a fine Ottocento, ma è probabilmente collegata alle altre manifatture Musso di Mondovì. Il piatto porta una decorazione dedicata (stranamente) alla commemorazione di un evento negativo per l’Italia: la disfatta di Amba Alagi durante la guerra abissinica, in cui perse la vita il maggiore Pietro Toselli (a cui sono intitolate vie in moltissime città d’Italia, non ultima Siena). La data di produzione è necessariamente compresa tra il 7 dicembre 1895 (data della battaglia) e il 1 marzo 1896, cioè la data della sconfitta ben più disastrosa di Adua, che compare invece in posizione defilata nella approssimativa carta geografica alle spalle di Toselli. Nel frattempo c’era stato anche l’assedio di Macallè, celebrato in altri due piatti della serie “L’Italia in Africa” molto simili anche nella decorazione.
Preciso subito che non conosco il valore di mercato di questo piatto, nel caso in cui ne possediate uno intero (dubito che in frammenti sia di interesse per i collezionisti). Ho l’impressione che non ve ne siano molti esemplari in circolazione, probabilmente a causa del breve periodo in cui è stato prodotto, ma posso sbagliarmi.
Da archeologo, lasciando da parte il piatto intero e tornando ai frammenti, devo sottolineare che questo reperto va considerato nel suo contesto di rinvenimento, in cui erano presenti altri oggetti prodotti a Mondovì nello stesso periodo. È certamente molto raro trovarsi di fronte a un reperto ceramico con una datazione così ristretta, che spesso è rara anche per una moneta. Spero ovviamente che tutto il contesto venga pubblicato (per chiarezza: non me ne sto occupando), sarà molto interessante e darà una prospettiva meno ristretta alle osservazioni su che ho raccolto qui.
D’altro canto, non posso non domandarmi che significato ha avuto questo piatto per chi lo ha comprato e posseduto: persone senza nome ma certamente affascinate dall’impresa coloniale italiana, come tante altre in quegli anni. Certamente non tutti condividevano questo entusiamo, né era da tutti acquistare questi oggetti celebrativi da esporre nelle proprie case. Negli stessi anni sempre a Mondovì si producono oggetti in ceramica tesi a raffigurare gli etiopi con fattezze mostruose e animalesche, come a rafforzare l’idea della loro inferiorità. Sarà poi il regime fascista a condurre per alcuni anni l’Etiopia sotto il dominio italiano.
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Riporto alcuni brani del libro, ricordando che se siete interessati a questo argomento potete comprarlo direttamente dal bookshop del Museo Storico Italiano della Guerra o cercarlo in biblioteca.
La descrizione del piatto (pagina 95):
Pietro Toselli ad Amba Alagi. La prima guerra d’Africa inizia con il tragico scontro di Amba Alagi […] Immediatamente l’emozione diventa l’occasione per un piatto celebrativo della speciale serie “L’Italia e l’Africa” dove compaiono la figura del Toselli (chiamato erroneamente Pier) sullo sfondo di una incerta carta geografica della regione attorno all’Amba Alagi e, nella tesa, i nomi dei due capi militari italiani in campo: il governatore dell’Eritrea, generale Oreste Baratieri, ed il comandante delle regie truppe in Africa, maggior generale Giuseppe Arimondi. E, per la salvezza dell’Italia, il famoso “Stellone d’Italia”. La data della produzione del piatto si può situare esattamente tra il 7 dicembre 1895 ed il 1° marzo 1896, data della sconfitta di Adua, località che nel piatto compare senza evocare la battaglia che ancora doveva avvenire.
Piatto di ceramica, manifattura Alessandro e Cesare Musso (Mondovì), diametro 24 cm [MGR FO 98]
La serie “Italia in Africa” fu comunque un successo effimero (pagina 97):
La serie ”Italia in Africa”. Il positivo esito di vendita dei piatti di Toselli e di Galliano indusse la manifattura ad inaugurare una vera serie di “piatti coloniali” dell’Italia, nella speranza di proseguire le fortunate produzioni. Ma questo progetto non andò molto avanti, forse per le infauste sorti della guerra, e così lo speciale marchio della serie di Toselli e di Galliano su “L’Italia in Africa” non annoverò la produzione di altri piatti.
Le manifatture ceramiche italiane sono schierate con le autorità (pagina 17), e questo fa riflettere sull’estrazione sociale degli acquirenti di questi piatti:
le produzioni italiane appaiono stranamente diverse da quelle rivoluzionarie francesi in quanto non celebrano mai eventi “sgraditi” alle autorità e a una certa parte dell’opinione pubblica. […] si trovano celebrate persino sconfitte clamorose (Amba Alagi, Macallé) ma mai momenti di lotta dell’“altra” Italia, quella che pareva non degna di fare storia ufficiale.
Antinoe è in preda ai saccheggi incontrollati. Non da ieri, come aveva già ampiamentesegnalato Cinzia dal Maso su Filelleni. La città fondata da Adriano è abbandonata a se stessa e gli abitanti preferiscono i guadagni facili degli oggetti venduti “illegalmente” alla tutela del sito archeologico con cui convivono. Come sempre in questi casi, la situazione drammatica genera indignazione in un pugno di addetti ai lavori: non abbiamo abbastanza vite per firmare tutte le petizioni a difesa del museo che chiude, del sito distrutto dalla strada, del monumento deturpato dalla nuova costruzione, del paesaggio rovinato dalle pale eoliche. Antinoe però non è un sito come tutti gli altri, e infatti la notizia (con i suoi tempi) arriva sulle pagine de La Stampa. Maurizio Assalto il 7 giugno scorso ha raccontato questa brutta storia, raccogliendola direttamente dalla voce di Rosario Pintaudi, uno degli archeologi italiani (papirologi? egittologi? siamo così provinciali) che svolge ricerche nella antica e sfortunata Antinoupolis. Leggiamo il passo in cui Assalto ci offre la sua incitazione ad indignarci:
Una situazione drammatica, che dovrebbe coinvolgere in particolare noi italiani non soltanto perché Antinoe è stata fondata da un imperatore romano, sia pure di origine iberica, ma anche perché al sito lavorano dal 1935 missioni del nostro Paese – dopo che a fine ’800, in capo a un secolo di devastazioni di ogni genere, vi erano passati i francesi, con Albert Gayet, e prima della Grande guerra gli inglesi alla ricerca di papiri. Eppure, tra una crisi economica e una politica, da Roma nessuno si è fatto sentire. Le stesse autorità egiziane non sembravano troppo interessate, e si capisce, perché i lasciti romani sono sentiti come estranei al patrimonio locale (tanto è vero che si sono mosse soltanto quando hanno saputo che era minacciato anche un tempio costruito in zona da Ramesse II), e del resto un turista che si avventura sulle sponde del Nilo cerca le vestigia dei faraoni più che quelle dei dominatori successivi.
Ricapitoliamo:
Adriano era di origine iberica (quasi extracomunitario e pure frocio, diciamolo) ma comunque è stato un imperatore romano, roba nostra
tutto il territorio interessato dall’Impero romano, o perlomeno tutte le città fondate da imperatori romani, devono essere di immediato interesse non solo dei cittadini italiani, ma anche del Governo (“Roma”)
per fortuna nel 1935 sono arrivati i bravi archeologi italiani a salvare Antinoe dai precedenti saccheggiatori e dai cercatori di papiri
rimanendo sulle sponde del Nilo per appena un migliaio di anni, il regno tolemaico e l’Impero romano sono chiaramente “dominatori” dell’Egitto e per questo le loro vestigia vengono liberamente sottoposte a saccheggio
Tanto per capirci, sono 9 anni che partecipo a una missione archeologica all’estero, con qualche problema politico-militare in meno rispetto a quella in questione, ma con tutti gli stessi problemi etici e culturali. Da diversi anni mi pongo il problema di cosa ci stiamo a fare noi archeologi a casa degli altri. Ci sono oltre 150 missioni archeologiche italiane all’estero, limitandosi solo a quelle che il Ministero degli Esteri sostiene (solo in parte, ça va sans dir), tra le quali peraltro l’Egitto occupa il primo posto insieme alla Turchia (14 missioni). Ho avuto modo di ascoltare i ricercatori fiorentini alcuni anni fa e ricordo nelle loro parole la stessa sensazione di fragilità per l’equilibrio precario che sempre si crea tra missioni archeologiche e comunità locali (all’estero, in Egitto, in Grecia così come in Maremma e in Salento). Il patrimonio archeologico non è solo di chi ci abita a fianco, ci mancherebbe. Ma per secoli noi civili sapiens sapiens abbiamo “salvato” questo patrimonio strappandolo alle sue radici, decidendo cosa era di valore e cosa no, costruendo una fiaba crudele di impero rinnovato. Leggete chi e come ha partecipato alla lunga stagione degli scavi italiani in Egitto sul sito dell’Istituto Papirologico “G.Vitelli” per farvi un’idea. Personaggi di altissimo livello come Ernesto Schiaparelli (Senatore del Regno), Carlo Anti (rettore dell’Università di Padova), Evaristo Breccia (rettore dell’Università di Pisa). Ma dal 1935 ad oggi la missione civilizzatrice non ha funzionato. Colpa dei selvaggi abitanti di Sheikh ‘Ibada? Forse no, non solo. Rileggete la storia degli scavi e concentratevi sui nomi dei luoghi: Hermopolis Magna, Ossirinco, Tebtynis, Ankyronpolis, Antinoe. Ci muoviamo nel presente degli altri ignorandolo, abbiamo solo occhi per il nostro passato, che era lì, nello stesso posto dove si scava alla ricerca di papiri. Un esame di coscienza… si può rinunciare a indignarci allora? No.
Ma il valore di questo patrimonio non è assoluto, scolpito nella pietra (scusate la facile ironia). In Italia lo abbiamo scritto nella Costituzione, e tanti se ne fregano comunque. E forse l’indignazione non è ancora giunta alle orecchie di Assalto, ma nello stesso modo vengono regolarmente depredati anche i siti di età dinastica e predinastica in Egitto, che non sono certamente “estranei al patrimonio locale”. In Siria, in Iraq, in Libia, abbiamo visto le stesse immagini, la stessa indignazione verso persone ignoranti o disperate o proprio infami che distruggono il proprio passato o quello di un popolo intero per soldi (pochi o tanti, dipende dagli acquirenti, quasi tutti maschi bianchi). Abbiamo visto un po’ meno indignazione quando persone coltissime stringevano amicizia con chi distrugge il presente e il futuro del popolo siriano. Se il dubbio è tra regimi repressivi e devastazione del patrimonio archeologico, c’è qualcosa che non va nella nostra missione civilizzatrice. Se su un quotidiano “colto” come La Stampa si leggono queste amabili idee colonialiste, basta chiudere gli occhi e sembra davvero di essere tornati al 1935 e ad un imperatore torinese.
Appunti presi sulla spiaggia di Preveli a Creta il 17 luglio 2011 e scarsamente rielaborati in seguito. Il discorso merita di essere approfondito.
C’è in Italia un pensiero post-colonialista dell’archeologia? Mi pare di no. Non credo che l’archeologia colonialista abbia necessariamente a che fare con il fascismo: lo precede (in alcuni casi di diversi decenni, come peraltro il colonialismo in generale) e gli è sopravvissuta. Probabilmente questa identificazione contribuisce ad azzerare il problema coloniale e l’ipotesi post-colonialista come una questione già risolta.
Eppure il problema c’è. Riesco a pensare ad almeno tre punti di partenza:
il metodo di scavo, sia in relazione all’uso di manodopera locale, sia più in generale nelle tecniche e strategie;
il rapporto con l’agenda culturale locale e la ricerca archeologica, storica, etc. del paese/paesi ospitanti;
il rapporto con l’esotico e collocamento del luogo dove si opera in una dimensione “altra”, l’identificazione del presente con il passato e innamoramento temporaneo dell’esotico.
Il punto 1 è forse quello più semplice da sviscerare e modellizzare: grandi aree o sondaggi, scavi pluridecennali o di breve durata, pochi archeologi e molti operai oppure pochi operai e molti archeologi, scavo oppure ricognizione. E ancora: approccio oggettivo, antichistico e definito oppure cangiante, riflessivo. Un sottoproblema è anche da ravvisare nelle forme gerarchiche del lavoro: pochi capi con precisi obiettivi e ampie conoscenze possono essere seguiti da giovani studenti e ricercatori in formazione con interessi specifici, anche di dettaglio, oppure essere semplicemente al seguito, in un luogo come un altro (e da qui la sciocca attesa di un metodo universale, buono per ogni contesto). Temo che questa situazione sia molto diffusa, non solo nell’ambito della ricerca italiana. In termini generali, può essere descritto come una mancanza o carenza di consapevolezza, che peraltro è tipica del post-colonialismo “per necessità”: il colonialismo vero conosce la lo storia passata e recente anche perché ha bisogno di essere a stretto contatto con il potere. L’ignoranza della storia recente, che è strettamente legata all’“appiattimento” del punto 3, è un punto piuttosto importante, che fa anche capire come un approccio binario al problema non possa essere esaustivo.
Ritornando sul rapporto con il fascismo, mi sembra importante rimarcare una accezione ampia del concetto di colonialismo, in cui la ricerca delle origini (dalla remota preistoria alle innumerevoli “albe della civiltà”) o del mediterraneo impero antico non sono gli unici svolgimenti del tema. Come collocare altrimenti l’archeologia delle crociate o delle potenze mercantili, e il militarismo che studia fortificazioni d’ogni epoca?