Il cambiamento avviene ai margini, in periferia, ai confini. Non avere una identità definita, prescritta, è una condizione privilegiata. Non mi dispiace essere sempre a metà strada, sempre in discussione, mai precisamente pertinente.

Sono anarchico. Vedo e sento i miei coetanei parlare sempre al passato, con il rimpianto di non avere qualcosa di scontato ad aspettarli: un lavoro, una famiglia. Non sento mai parlare di “quello che faremo”, “voglio fare così”, perché c’è sempre qualcun altro che ti dice cosa fare, come fare. Questo è il precariato. Parlare di politica è sempre lamentarsi, e mai proporre, pianificare, cambiare le cose. Come se la realtà fosse impossibile da manipolare e l’unica possibilità sia quella di allinearsi a qualche idea già fatta e pronta. Un partito, una petizione, e mai un sogno, un progetto.

Non do niente per scontato. Non penso che sia ovvio e necessario che gli altri supportino quello che faccio, che sia degno di ricevere attenzione, denaro. Se mi chiedete cosa faccio, o perché lo faccio, non ho la risposta pronta, preconfezionata. Cerco sempre di capire a cosa serve.

Penso che l’archeologia abbia molto a che fare con il teatro, con l’identità. Plasmiamo identità per chi non ha tempo di farsene una da sola. L’importante è capire quando si è sul palcoscenico. L’importante è non cadere dal palco.


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