È il 18 luglio 2007. Arriviamo alle Serre di Pentema passando da Montoggio. Anche venendo da Torriglia la strada è molto migliore e più veloce.
Accompagnatori sono Tilio (Attilio Sciutto) e Carletto (Carlo Traverso). Andiamo a vedere una fornace da calce “antica”, che loro non hanno mai usato, né hanno mai sentito i loro vecchi dire di averla usata.
Dalle Serre scendiamo verso la gea passando per la mulattiera in direzione di Montoggio. A metà circa si divide la mulattiera per Montoggio (a destra) e quella che scende ancora. Si arriva in fondo praticamente alla confluenza della Pentemina con il rio di Fallarosa, che iniziamo a risalire.
Nella gea si prendeva la sabbia per costruire, che poi veniva portata su con i muli, o a spalla per chi non aveva i muli. C’erano punti specifici dove si raccoglieva la sabbia, che con lo scorrere continuo dell’acqua era molto pulita. Usava che quando qualcuno individuava un mucchio di sabbia, ci posava delle pietre sopra, a segnalare che intendeva farne uso. Le altre persone perciò evitavano di prendere quella sabbia, che era già stata ”prenotata”.
Non mi sono nemmeno accorto che stavamo salendo su verso Fallarosa invece che nella Pentemina. Comunque, alla confluenza dei due corsi d’acqua, c’è il Campo da Sera Vegia, che Tilio chiama così. Non c’è molto da vedere se non parecchie pietre. Chissà che a fare qualche prospezione non esca qualcosa. Lungo il percorso, dove l’alluvione non ha mangiato del tutto il terreno, si incontrano spesso delle ciasse da carbon, riconoscibili perché sono perfettamente piane, anche con muretti di sostegno. Queste piazze, anche se erano del proprietario del terreno, venivano usate da tutti, e tutti quelli che la usavano facevano in modo di lasciarla come l’avevano trovata, pulita.
Non c’è molta acqua, comunque salendo si incontrano tre laghetti: Lago do Pian, Lago da Conca, Lago di Merli (perché qui ci faceva il nido il merlo – martin? – pescatore). Ci sono un po’ di pesci e anche i gamberi di fiume, che sono più grandi di quanto credessi. Troviamo anche la Teccia longa (sulla nostra sinistra, salendo), una cavità nella roccia, in pratica uno strato geologico che è stato dilavato tra due più resistenti, dove si cercava riparo dalla pioggia con gli animali al pascolo.
Arriviamo alla fornace, che è sulla nostra destra risalendo. Non so a che altezza ci troviamo di preciso: il GPS un po’ per la vegetazione e un po’ perché siamo in fondo alla valle stretta non funziona. Al tempo stesso, nonostante ci fosse una strada che da Fallarosa veniva fin quaggiù, ormai non ce n’è traccia. La mia impressione è che ci troviamo all’altezza del Fricciaro, o tra Fricciaro e i Campi.
La fornace è ancora molto alta. Dal piano del terreno sarà almeno 3 metri, forse di più. In alto invece è al pari con il livello della terra. Dentro è quasi completamente vuota, anche se non si riesce a vedere il boccacion da dove venivano infilate le pietre e le fascine di castagno. Semplificando, purtroppo, la spiegazione di come funzionava questa fornace è questa: la fornace è chiusa, e si conclude in alto con una falsa volta; il materiale viene inserito solo dal basso, e infatti il boccacion è grande perché ci deve entrare una persona dentro; all’interno le pietre sono disposte ordinatamente, una sopra l’altra; si usano fascine di legna. La calce così ottenuta viene selezionata, il crudo viene scartato; si mette in una fossa, dove viene aggiunta piano piano acqua: in questo modo la calce si “raffina” e diventa di ottima qualità. È Tilio stesso a farmi notare come questo procedimento, sicuramente più laborioso, dà però come risultato una calce di qualità nettamente superiore a quella del cemento industriale. Nessuno di loro ha mai usato questa fornace in particolare, ma hanno usato altre fornaci secondo questo procedimento. Ovviamente la posizione della fornace è strategica e deve essere in una zona ricca di pietra da calce (filon da pria da câsin-na). La fornace è costruita con un altra pietra, che però non sanno specificarmi.
Tutta un’altra storia è quella della seniêla, cioè una fornace per la calce molto più piccola, che può essere costruita e operata da una persona sola. Il nome deriva dalla cenere, che alla fine della lavorazione spesso si trova mescolata alla calce. Questa fornace ha una bocca molto più piccola, sempre in basso, che serve solo per accendere la combustione. In alto non è chiusa, ma aperta. Partendo dal fondo vengono sistemati vari strati di legna di castagno (e non altri legni più forti) e pietre di piccole dimensioni (meno di 10 cm). Viene dato il via alla combustione dal basso, e si continuano ad aggiungere strati di legna e pietre finché la seniêla non è piena, o finché c’è la quantità necessaria. Anche qui è importante selezionare la calce, cercare di lasciar fuori la cenere e i crudi.
Esaurita la fornace, torniamo indietro e decidiamo di risalire alle Serre per l’altra mulattiera, quindi risaliamo una parte della Pentemina. Troviamo sulla nostra destra il Muin do Bacioccu.
Sopra il Muin do Bacioccu, all’altezza della sua presa, c’è il Campo da Preisa, dove si coltivavano la mêga, le patate e il grano ancora dopo la guerra. Nello stesso punto si vede benissimo la ciuxa che portava acqua, anche volante (su travi di legno). Dopo qualche esitazione, Tilio conferma i miei ricordi: più in su, “da a Nina” la ciuxa passava da una parte all’altra della gea, con un pilastro in muratura e travi di legno.
Risaliamo verso le Serre e raggiungiamo la mulattiera che va fino al mulino delle Bande, dove è nato Tilio, passando per una costa che in basso si chiama Leman e in alto Banda. E arriviamo alle Serre, un po’ stanchi ma molto soddisfatti.
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