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  • Ricerca archeologica, democrazie e accesso alle informazioni

    Mi dedico da diversi anni alla gestione delle informazioni in archeologia, anche se ultimamente mi sto interessando più agli aspetti sociali che non a quelli tecnici. In questo post parlo di ricerca archeologica ‒ ma non necessariamente ricerca universitaria ‒ e cerco di guardare all’organizzazione del lavoro di gruppo dal punto di vista dell’accesso alle informazioni. È un tema chiaramente collegato alla circolazione delle informazioni (open data, open access), ma distinto. Paradossalmente si possono verificare situazioni di diffusione esemplare verso la comunità archeologica e verso il pubblico, in cui però non corrisponde un accesso completo alle stesse informazioni all’interno del gruppo di ricerca (il paradosso piramide-cascata). La situazione opposta, appena meno paradossale, è rappresentata da gruppi in cui le informazioni circolano liberamente, ma non vengono condivise all’esterno del gruppo stesso (il paradosso “vasca dei pesci”).

    Il focus implicito di quelle che scrivo qui sotto è principalmente sul fieldwork e sulle fasi successive. Anche quando siete da soli, l’archeologia è sempre un lavoro di gruppo.

    Ho la fortuna di far parte di un gruppo di ricerca in cui l’accesso alle informazioni è prevalentemente orizzontale: tutti i componenti del gruppo hanno accesso alla totalità delle informazioni prodotte durante la ricerca, senza restrizioni. Tuttavia, questo gruppo di ricerca ha una struttura verticale, non particolarmente originale, con un professore universitario, alcuni assegnisti/dottorandi, qualche laureato e un certo numero variabile di studenti. Questo gruppo di ricerca è un esempio di come l’accesso alle informazioni possa essere slegato dalle strutture decisionali, con l’aiuto della rete e dell’informazione digitale. La rete aiuta molto, specialmente se le informazioni sono “nativamente” in rete come nel nostro caso. Ma la decisione di usare la rete in questo modo è una conseguenza della mentalità orizzontale di accesso alle informazioni, e ha un carattere che possiamo chiamare democratico perché pone delle condizioni uguali per tutti. Nelle giuste condizioni, ciò può risultare in un rafforzamento della coesione interna e facilitare l’inserimento di nuovi elementi nel gruppo. Questo gruppo costituisce un paradosso “vasca dei pesci” perché le informazioni sono accessibili senza filtro a tutti i componenti del gruppo di ricerca, ma non vengono diffuse all’esterno. “No sense in war, but perfect sense at home…”

    Il wiki di GQB

    Collaboro da qualche tempo con un altro gruppo di ricerca sul campo, più ampio. Questo gruppo ha una struttura verticale necessariamente più marcata, produce la maggior parte della sua documentazione su carta ed è improbabile che qualcuno dai “piani bassi” voglia o possa consultare la documentazione prodotta da altre persone di pari grado, o dai superiori. In una fase successiva, tutta la documentazione viene digitalizzata, e rimane ugualmente di difficile accesso. Vari specialisti prendono parte alla ricerca, talvolta in tempi e luoghi diversi, rimanendo di fatto invisibili se non al direttore responsabile. La maggior parte delle persone che prendono parte alla ricerca sul campo non partecipa alle successive attività, e costituiscono quindi la ”manovalanza” che ha una conoscenza molto superficiale della ricerca, sia in generale sia nel suo svolgimento.

    Tabelle quantitative - Gortina

    La digitalizzazione post-scavo è ancora un momento fondamentale per la conservazione e la rielaborazione delle informazioni. Si tratta di una attività ripetitiva, che in un contesto commerciale può essere esternalizzata a costi relativamente bassi. Ho svolto questo lavoro in passato e penso che sia equivalente alla manovalanza sul campo (con il tunnel carpale in agguato in entrambi i casi). Per la natura “fordista” del data entry, è plausibile che parti diverse (ma collegate) dello stesso archivio vengano affidate a persone diverse, che quindi possono avere una immagine solo parziale di quello che stanno facendo. Si dirà che il contributo (specialmente intellettuale) di queste persone alla ricerca è pressoché nullo e non ci si debba pertanto preoccupare: io sostengo che l’accesso all’informazione digitale può apportare benefici a tutti i livelli, anche quelli più bassi, e contribuisce ad una migliore ricerca oltre che al benessere intellettuale delle persone.

    La partecipazione al processo decisionale è direttamente collegata (ma non necessariamente in modo proporzionale) all’accesso alle informazioni. Come in ogni contesto sociale, l’accesso alle informazioni è una condizione essenziale per l’esercizio delle proprie funzioni e diritti. Come possiamo pretendere che uno studente partecipi a uno scavo se non gli vengono forniti gli strumenti per capire cosa sta facendo? In che modo un professionista dovrebbe lavorare sul campo se non ha accesso alla documentazione delle ricerche pregresse in una determinata area? Se queste condizioni non sono soddisfatte, prevale un processo gerarchico, in cui le istruzioni vengono dall’alto e i risultati “atomici” vengono dal basso, per essere ricomposti via via che risalgono la scala di controllo.

    L’esistenza di una gerarchia verticale nella ricerca sul campo non è quasi mai messa in discussione, almeno nella mia esperienza (le origini di questa prassi si possono ricercare nelle radici militari dell’archeologia inglese, ma anche nella netta dicotomia tra archeologo e scavatore prevalente fino agli 1970 e oltre, e in definitiva si tratta di una prassi comune a quasi tutte le attività sociali). Un gruppo molto ristretto (meno di dieci persone) può “concedersi” un approccio più rilassato, ma ci saranno sempre occasioni in cui è una persona sola a decidere, anche per ragioni burocratiche e legislative: tuttavia l’effettivo processo decisionale può essere molto diverso, e può coinvolgere una proporzione più o meno ampia dell’insieme dei partecipanti sotto forma di dibattito, anche informale. Questi dibattiti possono riguardare elementi circoscritti e specifici dell’attività, oppure la strategia generale di intervento e i metodi impiegati per l’attuazione della ricerca. Io penso che si tratti di momenti fondamentali per la formazione e per la buona riuscita delle attività di ricerca archeologica a qualunque livello.

    Il tema è ampio e meriterebbe una approfondita analisi, anche tramite un questionario. Per il momento mi limito ad esporre due diritti che ritengo elementari.

    Ogni partecipante ad una ricerca sul campo deve avere:

    1. diritto di accesso a tutte le informazioni prodotte dalla ricerca stessa
    2. diritto ad una copia digitale delle informazioni che ha prodotto in prima persona o ha contribuito a produrre in modo sostanziale

    Che ne dite? La vostra ricerca è democratica? Quali diritti avete? Quali diritti pretendete?

  • Duemiladodici in libri: un anno di letture

    Avendo fallito miseramente nel tentativo di recensire uno ad uno i libri che ho letto nel corso del 2012 appena finito, tento almeno un elenco.

    A metà del 2012 ho ricevuto in regalo un lettore di e-book e questo in parte ha cambiato il modo in cui leggo. Ho letto la maggior parte dei libri in questo modo. Nel complesso il miglioramento è notevole, anche se fatico ancora un po’ a rinunciare ad un bel libro da toccare e maltrattare.

    • Carmine Abate, La collina del vento
      Ho ricevuto un consiglio che non potevo rifiutare. Il premio Campiello non si vince per niente. Banalizzando tutto, cent’anni di solitudine di una famiglia Malavoglia calabrese, con una trama archeologica. Ma che bisogno c’è di banalizzare, leggetevelo (caveat emptor)
    • Kurt Vonnegut, Dio la benedica, dottor Kevorkian
      Scoppiettante.
    • Antonella Beccaria, Anonymous
      Non svela nessun segreto, tranquilli. Ma fornisce un approfondimento che altrimenti vi dovreste ricostruire a gran fatica in rete.
    • Sergio Dent, Piove anche a Roma
      Un po’ troppo didascalico nelle parti politiche. Anzi, decisamente troppo. Più interessante l’immagine del quartiere/città e il protagonista. Se lo leggete, e vi domandate qualcosa sulle parti in cui si parla di sesso e cinema hard, leggetevi “8 possibili saggi sul porno” (punto 4). Ah, come si capisce dalla copertina non è ambientato a Roma.
    • Vitaliano Ravagli e Wu Ming, Asce di guerra
      Sotto molti aspetti il mito fondativo di buona parte dell’epica di Wu Ming degli anni 2000. Una serie di pugni nello stomaco.
    • Wu Ming, Anatra all’arancia meccanica
      È interamente favoloso. Più di tutto mi sono affezionato ad American Parmigiano, perché racconta la mia storia e quella di tanti amici, e ad Arzèstula, perché io in quell’autogrill del futuro ho passato molto tempo, nel passato di Vignale.
    • Collettivo Gran Bollito, Futuro Anteriore. Archeologia del dopo catastrofe
      La particolarità di questo libro è nel fatto che ho contribuito in minima parte come autore. No, seriamente, è un oggetto narrativo non identificato di facile lettura e inaspettata chiarezza.
    • +Kaos. 10 anni di hacking e mediattivismo
      Composto sotto forma di racconto più che di resoconto, fatto di interviste, un bello spaccato di come si è evoluta la Rete in Italia tra chiari e scuri.
    • Wu Ming 4, Stella del mattino
      Probabilmente il piacere che si prova a leggere questo libro è direttamente proporzionale a quanto si conoscono i personaggi. Il punto è che potete farne la conoscenza direttamente leggendo il libro.
    • Wu Ming 1, New Thing
      Ricordo di avere pensato «Oh no… mi renderò finalmente conto che le quattro panzane jazzistiche che ho scritto anni fa tra le righe di un libro che hanno letto solo 6 persone erano totalmente assurde!». Ma non era vero. Quanta rabbia c’è.
    • Wu Ming, Previsioni del tempo
    • Wu Ming 2, Guerra agli umani
    • Wu Ming 2, Il sentiero degli dei
      Questi tre stanno insieme … perché condividono molte cose, alcune delle quali hanno a che fare con l’ambientazione. Cosa vuol dire avere a cuore un luogo?
    • Antonio Gramsci, Lettere dal carcere (ancora in corso)
      Una lettura non leggera, a tratti noiosa, che vorrebbe essere un preludio a letture ancora meno leggere, sempre di Gramsci.
    • Lawrence Lessig, Code 2.0 (ancora in corso)
      Posso già dire che questo libro è stato scritto prima che Facebook esistesse, eppure ne spiega tutto.

    Se vi sembra un elenco monotematico, è possibile che lo sia. Se uno non può fissarsi su qualcosa, che gusto c’è a leggere?

  • DRM: buoni e cattivi

    Il DRM è quell’insieme di tecnologie che impediscono di copiare liberamente un contenuto digitale: una traccia audio, un libro, un filmato. Il DRM serve a “bloccare la pirateria” ma in realtà non blocca proprio niente ed è solo una seccatura.

    Di recente ho acquistato 3 libri digitali dalle seguenti case editrici:

    Minimum Fax e Ultima Books non usano DRM. Il file EPUB che viene fornito dopo l’acquisto contiene il nome dell’acquirente per scoraggiarne la diffusione, ma è finita lì. Mettiamo il caso che volessi prestare il libro alla mia fidanzata, posso farlo tranquillamente, come farei con un libro normale. Inoltre, posso scaricare il file EPUB con il mio browser e trasferirlo sul lettore usando Calibre o semplicemente copiandolo nella memoria. Con qualunque sistema operativo, per capirci, incluso quello che uso io cioè Debian.

    Mondadori usa DRM. Dopo l’acquisto posso scaricare un file .acsm che andrà caricato in uno specifico programma (Adobe Digital Editions), ovviamente disponibile solo per certi sistemi operativi. E a quel punto sempre di certi sistemi operativi avrei bisogno per caricare il file sul mio lettore. Ma come dicevo prima il DRM è solo una seccatura e non blocca proprio niente: si rimuove facilmente e il file EPUB può essere tranquillamente copiato sul mio lettore. O me ne posso fare un backup, oppure prestarlo a qualcuno. Tutte cose che il DRM non mi permette di fare. La lista delle case editrici italiane che usano DRM è lunga (es. Adelphi, che pure ha in catalogo libri molto desiderabili) e non mi sembra un caso che le piccole case editrici ne stiano alla larga, visto che il DRM è un sistema di monopolio. Non spendiamo nemmeno un minuto su Amazon, dove al DRM si aggiunge anche un bel formato proprietario, tanto per rimanere in tema di monopoli.

    Essere trattato da “pirata cattivo” dopo aver comprato qualcosa è talmente sgradevole che non ho nessuna intenzione di ripetere l’esperienza. È utopico pensare che tante altre persone scelgano di fare altrettanto, ma almeno è altrettanto utopico che si smetta di rimuovere il DRM dai libri.

  • What is coming in Total Open Station 0.4

    More than one year has passed since the first release of Total Open Station (TOPS). Version 0.3 already brought support for multiple data formats and devices, the ability to export your data to common standard formats and a programming library to create scripts around the core functionality of TOPS. We were very proud when TOPS was added to OpenSUSE and it is now being added to Debian and Fedora, three among the most popular GNU/Linux distributions.

    Feedback from users of TOPS 0.3 has not been as significant as we would have expected, even though we have been providing a stack component for survey professionals that was totally missing on GNU/Linux and on Mac OS too in many cases. Nevertheless, we have continued developing TOPS, admittedly at a slower pace.

    TOPS 0.4 is going to feature support for new raw data formats (including initial support for the popular Leica GSI) and the core data types are being completely rewritten in order to allow handling of polylines and polygons. The lines of code are fewer, making it easier to find new bugs and to start hacking on your own if you want. Thanks to our contributors, we will make more languages available for the program interface.

    Being a volunteer-driven project, developer time is a critical resource, but we found out that user feedback and involvement is actually the most valuable resource. With this in mind, we are going to change the project governance to make the role of contributing users more prominent.

    If you use a total station as part of your daily work and you care about software freedom, please consider donating to support the development of TOPS, and submitting a bug report about the models and formats you need.

    Total Open Station is a free and open source program to download, manage and export survey data from total stations. It runs on all major operating systems and supports a growing number of raw data formats.

  • Tormento

    Tormento
    Tormento
  • Open archaeology: otto anni di discussioni tra tecnica, metodologia e professione

    For my non-Italian-speaking friends and readers: there is an older post in English, touching several of the topics discussed here.

    Il 17 e 18 novembre ero a Paestum per il workshop “Il futuro dell’antico” organizzato dall’Associazione Nazionale Archeologi (ANA) che mi ha invitato a parlare di “Open archaeology”. I risvolti nel mondo professionale della cosiddetta (non da me) “rivoluzione” open mi interessano molto, in più non avevo mai partecipato alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico (evento contenitore all’interno del quale si svolgeva il workshop) e tutto sommato mi mancava un viaggio agli estremi della logistica ferroviaria (sono passato sull’Albegna poche ore dopo la riapertura ‒ attraversando il disastro ancora nell’aria). Insomma, l’invito è stato veramente gradito.

    Il logo della Borsa Mediterranea come appare sulla moquette

    Gli otto anni del titolo si contano a partire dal 2004. Il 2004 non è solo l’anno in cui prese vita IOSA, ma più in generale si avviò un processo di convergenza tra realtà fino a quel momento isolate che poi avrebbe condotto nel 2006 al primo workshop di Grosseto.

    Con il senno di poi il mio intervento non è stato dei più comprensibili. Proverò qui a svolgere il tema in modo più articolato, riflettendo sui punti che ho affrontato.

    Ho iniziato con una domanda che mi pongo da qualche tempo, riassunta così:

    tecnologia + futuro = futuro migliore?

    Forse è banale domandarselo. Forse è incoerente con il fatto che gran parte delle mie attività hanno a che fare con la tecnologia. Ma se guardo l’archeologia del 2012 e la confronto con quella del 2002 (c’ero già dentro… il tempo passa) o del 1992, sarei disonesto se volessi vedere un radicale miglioramento avvenuto grazie alla tecnologia:

    • maggiore precisione nelle misurazioni? Certamente sì, ma il rapporto costi/benefici non è stato opportunamente preso in considerazione;
    • maggiore quantità di dati raccolti? Certamente sì, ma i dati solo ora iniziano timidamente a circolare in rete, 20 anni dopo l’invenzione del web, mentre un report di scavo o un volume monografico sono immutati in forma, dimensione e fruibilità;
    • maggiore qualità dei dati raccolti? Non saprei;
    • migliore comunicazione al pubblico? In alcuni casi, una ristretta minoranza;
    • grandi scoperte grazie alla tecnologia? Nemmeno l’ombra;
    • cambiamenti di paradigma? rivoluzioni copernicane? Lasciamo perdere.

    Questo non significa che dobbiamo rinunciare alla tecnologia o rifiutarla. Al contrario dobbiamo appropriarcene molto più di quanto abbiamo fatto finora, e liberarci della fascinazione che esercita. Ma andiamo con ordine.

    Delicious, GeoCities e il software libero

    Ho portato l’esempio dei social network come anello debole del nostro uso dei sistemi di informazione. I social network più diffusi (Facebook, Twitter, Google+ e tutti gli altri) sono al di fuori del nostro controllo. Inseriamo informazioni, aggiornamenti, foto in sistemi di cui non possediamo la chiave. Sono sistemi gratuiti: il prodotto non è il sito web usato da noi, bensì siamo noi il prodotto. Non è solo teoria catastrofista, purtroppo, come dimostrano la chiusura di GeoCities e di Delicious, tanto per fare alcuni esempi. A quando la chiusura di Facebook? Una persona qualunque può credere ingenuamente alla durata eterna di qualcosa. Un’archeologa, un archeologo no, per definizione.

    Questo è importante per capire il ruolo del software libero: esistono sistemi distribuiti, cioè non centralizzati, che funzionano secondo gli stessi principi del Web. Questo blog utilizza un software (WordPress) che posso installare su altri server, anche se questo ha un costo superiore all’utilizzo di un sistema gratuito. In questa dicotomia tra “libero ma costoso” e “proprietario ma gratuito” spero si possa finalmente superare la grande confusione tra software open source e software gratuito che ancora permane.

    Che sia in rete o installato sui nostri pc, il software proprietario ci priva del controllo sulle informazioni e sui dati. Ma perché siamo tanto attirati dalle novità tecnologiche?

    Nuove tecnologie?

    Il GIS (al singolare maschile), il 3D, le reti neurali, il laser scanning, il web semantico, i social network… tutti episodi nella grande saga delle nuove tecnologie per l’archeologia. 20 anni fa la tecnologia dell’informazione era molto meno pervasiva, l’archeologia era molto più accademica e quindi in qualche caso eravamo veramente all’avanguardia nell’adozione di nuove tecnologie. Oggi tutto è cambiato, e fa sorridere che qualcuno pensi ancora di essere innovativo perché applica, usa o sviluppa tecnologia. Peraltro un sottoinsieme della tecnologia, cioè la tecnologia dell’informazione. È ovunque, è un nervo della nostra società. Non è una scelta.

    Ricollegandomi all’intervento precedente di Paolo Güll, posso dire che gli archeologi devono ancora perdere la loro innocenza nei rapporti con la tecnologia e l’informatica, ancora intrisi di feticismo, timore, ignoranza. L’archeologo facci l’archeologo, no l’informatico! sento la eco di questo disperato appello ancora pulsare parlando con tanti colleghi … e invece no, è importante capire se un sistema di gestione dei dati è appropriato o meno, e non è qualcosa che si possa decidere in poco tempo, senza pensarci, senza discuterne, senza comprendere (l’autore dell’appello rimarrà anonimo, che è meglio).

    In più, mentre subiamo l’evangelizzazione dei profeti delle nuove tecnologie, possiamo fare innovazione usando vecchie tecnologie come il web per condividere dati archeologici. Potevamo farlo anche 20 anni fa, ma non ne siamo stati capaci. Di condivisione dei dati ha parlato più concretamente Gabriele Gattiglia prima di me illustrando il progetto MAPPA.

    Open: cosa apriamo precisamente?

    “A piece of content or data is open if anyone is free to use, reuse, and redistribute it — subject only, at most, to the requirement to attribute and/or share-alike.”

    Open Definition

    Nella Open Definition, si dice che un dato o un contenuto sono aperti se soddisfano certe condizioni. Dati. Contenuti.

    Permission is hereby granted, free of charge, to any person obtaining a copy of this software and associated documentation files (the “Software”), to deal in the Software without restriction, including without limitation […]

    MIT License

    La licenza MIT è una delle più diffuse e comprensibili licenze di software libero. L’autore che la adotti per il proprio lavoro concede a chiunque, senza specificazione di provenienza, età, professione, autorizzazioni, il permesso di copiare, modificare, redistribuire il codice sorgente senza restrizioni né limitazioni. L’unica condizione è di citare l’autore.

    Queste due definizioni sono importanti perché:

    1. spiegano senza mezzi termini che per essere “open” dobbiamo dare qualcosa agli altri ‒ se per esempio dico di avere un  “approccio open (source)” o una “filosofia open” non sto dando niente;
    2. spiegano che i destinatari non devono essere definiti a priori (es. gli archeologi in possesso di un certo titolo di studio), ma devono essere universali.

    Un mea culpa è d’obbligo per aver contribuito alla diffusione di locuzioni (slogan?) come open archaeology senza il necessario sottotitolo: software e dati liberi. Ma purtroppo l’ambiguità della parola open è ben oltre i confini dell’archeologia e dilaga. Quello che vi chiedo è di non inventare nuovi significati di open dovunque sia coinvolta la tecnologia dell’informazione: il significato c’è, è chiaro, e contribuisce all’esistenza di cose come Wikipedia. Anche perché in caso contrario pongo una minaccia (amichevole ‒ si capisce): di perseguitare chi usa a sproposito la open archaeology pretendendo che la metta in atto veramente.

    Sarei solo pedante con questo discorso (Vittorio Fronza lo avrebbe già battezzato pippone diversi paragrafi fa, a buon diritto) se non ci fosse ArcheoFOSS. Ma invece c’è. Dal 2006 abbiamo iniziato a incontrarci, raccogliendo intorno allo stesso tavolo archeologi, informatici, avvocati, economisti, studenti. All’inizio il tema era semplice e chiaro: Free software, open source e open format nei processi di ricerca archeologica (alla faccia degli acronimi). Però nel giro di due anni ci siamo trovati a parlare di:

    • diritto di accesso ai dati;
    • ostacoli alla circolazione delle informazioni in rete;
    • proprietà intellettuale degli archeologi a contratto

    Questo è accaduto per due motivi. Il primo motivo è che queste tematiche sono lo svolgimento naturale dei principi del software libero (libertà di condivisione, riconoscimento della propria opera) nel contesto dell’archeologia italiana. Il secondo motivo, più grave e tuttora in cerca di una soluzione vera, è che non esiste in Italia un’altra occasione per affrontare questi temi ‒ affrontarli davvero, non parlarne e basta. Ritengo quindi fondata la necessità del legame tra software libero e dati liberi in questo contesto (Paolo Güll dopo mi ha detto che la pensa diversamente, ma intanto Metarc usa Mediawiki, FastiOnLine è software libero dalla testa ai piedi, così come MAPPA).

    L’accesso alle banche dati è diventato fondamentale anche a livello economico dopo l’introduzione dell’archeologia preventiva, perciò qualunque professionista può capire che questa battaglia (se si può chiamare così) è un obiettivo comune. Con l’introduzione del software libero nella Pubblica Amministrazione la condivisione dei dati è oggettivamente più semplice. Per i liberi professionisti e le piccole imprese (di medie e grandi non ne vedo in archeologia) si pone anche un’altra questione economica: investire sulla formazione o sui costi di licenza? E ancora, rifacendomi all’esempio dei social network, che vale però per qualunque servizio web, esternalizzare o fare rete? Mi piacerebbe, a maggior ragione nell’ambito di un incontro organizzato dall’ANA, che queste problematiche non fossero relegate alle scelte dei singoli ma affrontate collettivamente, che si tenesse conto del percorso già fatto in questi anni.

    Un esempio di “open” che mi piace

    L’apertura delle banche dati e del libero accesso al patrimonio informativo sui beni culturali non riguarda solo gli archeologi. Nel suo intervento Tsao Cevoli ha messo bene in evidenza come un modello sano di partecipazione alla gestione del patrimonio debba includere anche i cittadini.

    Nel 2012 per la prima volta si è tenuto in Italia il concorso fotografico Wiki Loves Monuments. Il concorso è stato possibile (anche) grazie ad un accordo tra Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Wikimedia Italia, che consentiva di fotografare liberamente i monumenti e siti archeologici che le soprintendenze segnalavano, con una particolare attenzione a quelli “minori” (con meno di 50.000 visitatori l’anno).

    Anfiteatro di Capua – Nicola D’Orta – Il vincitore di Wiki Loves Monuments Italia 2012

    Tutte le foto partecipanti al concorso sono state caricate su Wikimedia Commons con una licenza Creative Commons – Attribuzione – Condividi allo stesso modo (CC-BY-SA) che permette il riutilizzo senza limitazioni, a patto che si continuino a condividere i contenuti. A me questo sembra un grande esempio di “beni culturali open” in cui la rete serve a incentivare la partecipazione dei cittadini e la “appropriazione buona” dei beni culturali, con una eccezione temporanea ad una norma tra le più anacronistiche del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

    Tirando le somme…

    Nel 2007 avevo invitato Tsao Cevoli, presidente dell’ANA, al secondo workshop sull’archeologia e il software libero (non si chiamava ancora ArcheoFOSS), per parlare di accesso ai dati. Già allora avevamo capito che il software era necessario ma non sufficiente. Già allora avevamo capito che era fondamentale uscire dalle aule universitarie e diffondere una maggiore consapevolezza sugli strumenti e le pratiche di creazione e gestione delle informazioni. Ci siamo un po’ persi per strada e nonostante la partecipazione di professionisti e soprintendenze sia diventata un elemento costitutivo di ArcheoFOSS c’è ancora molto lavoro da fare per rendere questa consapevolezza elementare (nel senso scolastico) e universalmente diffusa.

    Il bello di questo workshop è stato ritrovare lo stesso spirito di partecipazione e critica che siamo riusciti a creare in ArcheoFOSS, in una atmosfera seria ma sanamente informale (nella quale ho potuto rivendicare il diritto al mugugno all’inizio del mio intervento) . È un modo per andare dritti al sodo, senza girare intorno ai problemi.

    Ho concluso più o meno così:

    Io non credo nella condivisione della conoscenza come costituzione di super-intelligenze, di banche dati in grado di rispondere a tutte le domande, la conoscenza si fa costruendo e assemblando le banche dati. Spero invece che la crescente diffusione di dati archeologici in rete possa dare ‒ per dirla con Wu Ming ‒ asce di guerra alle archeologhe e agli archeologi di domani.

    • · • · •

    Appendice: standard e partecipazione

    Sabato 17, durante la prima sessione del workshop, ho commentato l’intervento di Andrea D’Andrea sul web semantico, sottolineando che le ontologie CIDOC-CRM sono state create a tavolino da un gruppo ristretto di persone (per la gestione dei beni museali), ed è quindi difficile accettare che questi standard siano accettati da decine di migliaia di professionisti che se li vedono recapitare a scatola chiusa. È vero che CIDOC-CRM è uno standard ISO: tuttavia, mentre qualunque ingegnere impara che per certi aspetti del suo lavoro dovrà fare riferimento agli standard ISO di competenza, a nessun archeologo viene comunicata l’esistenza di questi standard, che rimangono dominio per pochi “scienziati dell’informazione” (cito D’Andrea) in grado di interagire con gli archeologi. Sono emersi anche problemi di ordine concettuale e filosofico, ma non li affronto qui. Mi è sembrato emblematico che D’Andrea stesso abbia definito “incomprensibili” alcuni dei principali concetti che tentava di esporre ‒ e che si continui a partire da concetti totalmente astratti (ontologie, modelli dati) senza riuscire ad entrare nel concreto e semplice svolgimento dei linked open data.

    Ho fatto anche un incauto parallelo con lo sviluppo delle schede ICCD negli anni ’80 (a cui è seguita una opportuna correzione di Giuseppina Manca di Mores, che comunque mi è sembrata rafforzare il punto del mio discorso sull’importanza della partecipazione). L’importanza di standard costruiti tramite processi partecipativi è ritornata anche nelle discussioni di domenica e credo possa essere un punto di partenza per iniziare a confrontarsi con gli standard tecnici che già esistono in modo critico e iterativo (l’iteratività dei processi creativi mi piace molto ‒ ma ne parliamo un’altra volta), puntando alle buone pratiche.

  • Tweet dal futuro

    Tutti i tweet di @stekosteko da “Il futuro dell’antico”. Con commento tecnico.

    Il giorno prima

    L’anteprima fa capire tutto sul seguito:

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269477021346828288

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269563885328158721

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269673825468284928

    Sabato 17 novembre

    Ho fatto una radiocronaca forsennata di tutti gli interventi. Senza risparmiare critiche.

    Andrea D’Andrea

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269838362054123521

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269838639880617985

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269839000632688640

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269839498530127872

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269839633968410624

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269839862365052928

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269840054401253376

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269840380583890944

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269840505133731841

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269840708016406530

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269840965831884802

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269841119603482624

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269841178495696896

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269841352366358528

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269841706709557248

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269841983370043392

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269842347066552320

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269842524141674496

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269842712503648257

    Massimo My

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269842980125425666

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269843192558522368

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269843538731229184

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269844000234672128

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269844179813818368

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269844794421940225

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269845092322402305

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269845880000110593

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269846659121434624

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269847137490198529

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269847364158750722

    Paola Mazzei

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269847629863739392

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269848935982567424

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269849099728195584

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269849397054025728

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269849527517868032

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269849758464614401

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269850168407502849

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269850475485097984

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269850686433402882

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269850938334920704

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269851360189620225

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269851644169162753

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269851851606872064

    Erik Pender

    All’inizio ho scritto il nome sbagliato.

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269852229429776387

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269852552701554690

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269852918423908352

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269853092734971905

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269853833398738945

    Mi rendo conto del typo e ho una reazione geek:

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269854008036966400

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269855535367602176

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269856182741630977

    Astrid D’Eredità

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269856829616582657

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269858570919636992

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269859220311130113

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269859455036948480

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269859880976932865

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269860276680142849

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269861324144648192

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269861523596394497

    Giorgio Troisi

    In Comic Sans come il CERN.

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269862091534503936

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269862261307355137

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269862473119698945

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269862664308678656

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269862914654076928

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269863063551877120

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269863242736754688

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269863466683215872

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269863748167168000

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269863996654497792

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269864313148293120

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269864953874378755

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269865522013802496

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269865722883211265

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269866080640585728

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269866395964166145

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269866863360606208

    Salvatore Agizza e Michele Stefanile

    Ho fatto confusione tra i due per tutto l’intervento. Chiedo scusa.

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269867103056707585

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269867216730738688

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269868046930300928

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269868422496677889

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269868569020493824

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269869548948299776

    Walter Grossi

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269873877918838785

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269874306635419648

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269874615499751424

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269874832554983424

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/269875276060708865

    Postumi

    Il giorno successivo non ero in vena di radiocronaca, anche perché parlavo, ma qualcuno ha colto una delle cose più importanti che ho detto:

    https://twitter.com/#!/stekosteko/status/271180046088151040

    La notizia completa è sul sito di ArcheoFOSS.

  • Archeologia due punto zero

    Archeologia due punto zero

    Appunti cartacei del sedici dicembre duemiladodici, in treno verso Genova e poi Roma e poi Paestum.

    Può darsi che qualche volta ci sia cascato anche io, ma su due piedi non ricordo di avere mai parlato o scritto di “archeologia 2.0”. A ogni modo, oggi ho deciso di scrivervi per dirvi quello che ne penso.

    L’archeologia 2.0 non esiste. Nel migliore dei casi, l’espressione è una crasi di archeologia e web 2.0. Ma c’è una bella differenza (pensate ad “archeocolonialismo” oppure “archeologia e colonialismo”) e credo non per caso nel febbraio 2011 il seminario organizzato a Siena si chiamava “Lo scavo e il web 2.0”. Ora non voglio andare contro chi ha usato questa espressione (fino a renderla il titolo di un fortunato blog), perché intendo questa riflessione anzitutto come autocritica. All’estero si studia già da qualche tempo in modo critico l’uso, l’abuso e la fascinazione morbosa dei social network nella pratica archeologica (Lorna Richardson, Dr. Web-Love). Qui forse siamo ancora alla fascinazione.

    Inizio con 2 parole sul “2.0”. Nell’industria del software si usa la pratica ingegneristica di numerare le versioni che vengono rilasciate. La prima versione è (era) tipicamente la 1.0. La versione 2.0 è quindi diventata per antonomasia la “prossima”, quella “migliore di sempre” rispetto alla quale la precedente diventa obsoleta, non supportata e imbarazzante. Ci sono nuove funzioni, una migliore usabilità, etc. La trasposizione di “2.0” come aggettivo del web ha degli specifici diversi (social, user-generated content, cloud) ma permane il concetto di “rivoluzionario miglioramento”.

    Non vedo rivoluzionari miglioramenti nell’archeologia, e in quella italiana in particolare. Ne ho sentito parlare, questo sì, e abbiamo avuto varie rivoluzioni annunciate, ma dopo l’annuncio niente. Forse c’è stata un po’ di confusione in un periodo (transitorio, come tanti periodi) in cui erano/eravamo in pochi a usare il web 2.0 per comunicare l’archeologia, e si è avuta l’impressione di fare la rivoluzione solo perché si usavano degli strumenti nuovi, un po’ come abbiamo fatto con il software libero (l’ho scritto all’inizio che era soprattutto autocritica). Il fatto è che l’archeologia pubblica esiste da molti decenni e da sempre ha usato i mezzi di comunicazione esistenti. Forse abbiamo assistito a un rovesciamento delle credenze popolari sugli Etruschi, sulla caduta dell’Impero Romano, sulla vita rurale nel Basso Medioevo? Abbiamo sovvertito qualcosa usando il web 2.0? Di nuovo, non mi sembra. Ma forse sto attaccandomi a dei dettagli senza andare al cuore del problema.

    Magari “archeologia 2.0” è solo wishful thinking, ché sarebbe bello davvero riscrivere da capo il nostro codice e aggiornare a una nuova versione del software, dove possiamo dimenticare l’egemonia culturale dell’Università (non delle università) verso i professionisti, smettere di attaccarsi all’articolo 9 della Costituzione per difendere in realtà i diritti dei lavoratori della cultura, accettare che la cultura è di elite, rifiutare che le elite siano chiuse e poi finirla di raccontare al pubblico un passato sempre edificante, lineare. Questo elenco è destinato a essere un campionamento casuale delle tante, troppe cose che non vanno nell’archeologia italiana.

    Intorno al 2006 ho detto e scritto che le rivendicazioni di specificità dell’archeologia nei confronti dell’informatica erano barzellette, perché saremo sempre costretti a usare quello che la società nel suo complesso usa. Siamo troppo pochi, troppo piccoli per essere noi a cambiare le cose. Nessun archeologo si vanta di usare l’automobile, ma quasi tutti lo fanno, quindi … Archeologia motorizzata! Ve lo immaginate? Per un breve periodo c’è stato eccitamento per la fotografia digitale (e il web 2.0 ci permette di vedere innumerevoli foto brutte, e poche foto belle che rendono ancora più brutte tutte le altre, in attesa di usare direttamente Instagram per le foto dei reperti). Ora che da qualche mese mio padre ha un account Twitter, posso mettere nel cassetto anche questa pagina della nostra gloriosa rivoluzione digitale. Eh sì, perché il punto è proprio quello, tra 2-3 anni il 2.0 sarà talmente banale…

    Non c’è niente di sbagliato nel “lasciare la porta aperta” sul proprio cantiere di scavo, ma qualcuno ha davvero il tempo di seguire una ricerca senza prendervi parte, tornando a recitare il ruolo di quel “pubblico a casa”, così fuori luogo nell’epoca della partecipazione?

    Da una archeologia 2.0 mi aspetto almeno che abbia perso un po’ dell’innocenza accumulata indebitamente.

  • La vita non è tutta rose e fiori

    Teste di acciughe sfilettate

    A volte finisce male.