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  • Una domenica di sole, pancakes e canali

    Amsterdam.

  • My bike

    La bici

    Everyone has a bike in Amsterdam.

  • Società Ceramica Italiana di Laveno

    Probabilmente in molte case italiane ci sono piatti simili a questo.

    Piatto in terraglia bianco con sottili bordi arancioni, in parte consumati

    La cosa che però forse solo pochi fanno è voltare il piatto sottosopra, leggere il marchio di fabbrica e cercare di saperne qualcosa di più. OK, le produzioni ceramiche di massa del XX secolo non saranno particolarmente eccitanti, ma credo che proprio questa loro diffusione le renda degne almeno di uno sguardo.

    Piatto in ceramica bianca, vista della base con il marchio di fabbrica Società Ceramica Italiana Laveno.

    Il reperto in questione è un piattino da frutta, presente nella collezione di famiglia in 7 esemplari. Secondo mia nonna provengono sono stati acquisiti tramite una raccolta di punti fedeltà. Secondo mia madre erano di una delle sue nonne e non hanno niente a che vedere con una raccolta punti.

    Quindi? A quando risalgono i piatti da frutta con il bordo arancione? Sono un cimelio o una banalità? A quante generazioni sono sopravvissuti?

    Società Ceramica Italiana di Laveno

    Il marchio di fabbrica rimanda esplicitamente alla Società Ceramica Italiana di Laveno (VA).

    La Società Ceramica Italiana di Laveno, fondata nel 1856, va incontro alla fusione con la Richard-Ginori nel 1965, e per questo motivo si trovano alcune informazioni sulla sua storia sul sito web del Museo di Doccia. Altre informazioni storiche sono pubblicate da Roberto Conti nel suo Archivio della Ceramica Italiana del ‘900 (ripreso, purtroppo senza nessuna aggiunta, dal blog Il Piatto Antico). I punti salienti sono:

    • viene fondata nel 1856, da parte di ex-dipendenti della società Richard;
    • nel 1883 assume la denominazione di Società Ceramica Italiana (S.C.I.);
    • negli anni 1920 e 1930 sotto la direzione artistica di Guido Andlovitz eccelle nella produzione di servizi da tavola;
    • nel 1956 entra a far parte del gruppo Richard-Ginori;
    • nel 1965 avviene la definitiva fusione.

    Questa cronistoria è di per sé sufficiente a collocare entro il 1965 la produzione dei nostri piatti da frutta. Infatti, sulla stessa pagina web del Museo di Doccia indicata sopra, è evidente che dopo la fusione lo stabilimento di Laveno continuò a produrre ceramiche, ma con il marchio Richard Ginori.

    Il terminus post quem è il 1883, ma sembra a prima vista un po’ troppo indietro.

    Raccolta punti si o no?

    Proseguiamo l’indagine con la raccolta punti. Si tratta di un argomento su cui non è facile reperire informazioni storiche in rete, anche a causa della promiscuità dell’argomento con le raccolte attuali. In Italia la diffusione di massa avviene negli anni 1950 con le celebri raccolte Mira Lanza, anche se non va dimenticata la raccolta Buitoni-Perugina degli anni 1930 (centrata sulle figurine). Non esplicitamente, ma questo documento descrive per sommi capi alcuni aspetti del fenomeno. Tra i premi della raccolta Buitoni-Perugina (anni 1930) figura anche “un servizio da tè o caffè per 12 persone”: non sembra essere il nostro caso, ma ci si avvicina. Senza un elenco di possibili raccolte, e senza una indicazione cronologica anche generica, è difficile stabilire questo aspetto.

    Marchi di fabbrica

    Nonostante i piatti siano solo 7, ci sono due gruppi con rispettivi marchi di fabbrica. La forma del marchio è la stessa, un’aquila sormontante un cartiglio. In un caso in la scritta recita Società Ceramica Italiana – Laveno mentre nell’altro al centro si legge Verbanum Stone e intorno Società Ceramica Italiana – SCI – Laveno.

    Base di un piatto in ceramica bianca, vista ravvicinata del marchio di fabbrica Società Ceramica Italiana, Verbanum Stone SCI Laveno.

    Perché due marchi diversi se i piatti sono uguali tra loro? Una cronologia dei marchi della Società Ceramica Italiana aiuterebbe a capirlo, ma non sono riuscito a trovarne una. Le ipotesi sul piatto sono due:

    • i marchi sono relativi a due diversi stabilimenti;
    • i marchi sono relativi a periodi diversi.

    Per inciso, queste sono le due classiche alternative dello studio delle produzioni ceramiche in archeologia: variazione nello spazio o nel tempo.

    Vediamo cosa è possibile stabilire su questi marchi basandosi sulle risorse disponibili in rete (il volume Laveno e le sue ceramiche: oltre un secolo di storia non è facilmente reperibile, anche se si trova in alcune biblioteche pubbliche). Verbanum Stone sembra più semplice da cercare, perché non corrisponde al nome della società, quindi inizieremo da quello.

    Il catalogo LombardiaBeniCulturali contiene una collezione di 516 oggetti prodotti dalla Società Ceramica Italiana, quasi tutti conservati nel museo di Laveno. Questo marchio propagandistico contiene la dicitura Verbanum Stone ed è datato tra il 1900 e il 1924. Ne esiste uno precedente, di stile molto diverso. Il tipo con aquila e cartiglio però non è molto significativo dal punto di vista cronologico perché è rimasto in uso anche dopo la fusione con Richard-Ginori, come si vede nella pagina già citata sopra del Museo di Doccia. Il marchio Verbanum è presente anche su alcune tazze e un piatto nella collezione del Berghof di Adolf Hitler, parte di un servizio donatogli da Benito Mussolini. Una versione finemente dettagliata del marchio fa la sua comparsa su questo piatto nella collezione della Wolfsonian–Florida International University.

    La cronologia dei marchi di fabbrica rimane difficile da stabilire con certezza.

    Poiché le schede di catalogo di LombardiaBeniCulturali contengono, nella versione dettagliata, sia la datazione sia la descrizione del marchio di fabbrica (dove presente), ho pensato che uno spoglio delle schede di catalogo potesse dare qualche indicazione. L’inizio è stato promettente, perché ha indicato che il marchio Verbanum Stone non va oltre gli anni 1930, ma ho voluto avere il conforto dei grandi numeri e controllare tutte le schede di catalogo. E il risultato è stato migliore del previsto.

    Ho trovato 128 schede su 516 che attestano la presenza del marchio “VERBANUM STONE”, ma alcune riportano anche questa spiegazione completa:

    La  presenza  della marca  in  verde  con  aquila  ad  ali  spiegate  e  la scritta  VERBANUM  STONE  indica  una  datazione  entro  il  primo  quarto  del  Novecento,  considerato  che  intorno  al  1925 Guido Andlovitz fece sostituire tale marca con quella con la scritta Lavenia.

    Ecco dunque una indicazione cronologica sicura, anche se non abbiamo ancora capito il rapporto con il secondo marchio, la cui presenza su piatti del tutto uguali potrebbe indicare l’utilizzo di più marchi in contemporanea, magari in stabilimenti diversi, oppure la produzione continuata di un servizio molto semplice anche dopo il cambio del marchio.

    Il tipo del piatto è molto semplice, e comprensibilmente non fa parte del catalogo LombardiaBeniCulturali, ma potrebbe essere un sottoprodotto molto elementare di questo servizio decorato da Piero Portaluppi negli anni 1920. C’è una denominazione precisa sulle forme dei piatti e dei servizi, ma non sono riuscito a trovarne una che corrisponda ai nostri piatti.

    Conclusione

    Sembra che in fondo i piatti fossero veramente di una mia bisnonna, e che abbiano ormai almeno 90 anni. Un bel traguardo per questi superstiti di un servizio da tavola più numeroso.

    Non è l’età anagrafica a rendere questi piatti interessanti ‒ e ci sono certamente cose più vecchie, in grado di raccontare una storia più intima di questa ‒ ma credo che dovremmo praticare un po’ più spesso queste “spigolature” sulla cultura materiale dell’altroieri: ho imparato qualcosa di nuovo sulla storia di una industria italiana, sul suo funzionamento e ho scritto una piccola storia su sette piccoli piatti che continueranno a stare nella credenza con gli altri, ma da oggi sono un po’ più interessanti.

  • La pietra scritta di Senarega

    La pietra scritta di Senarega è un romanzo di Marcellino Dini, ambientato (principalmente) in Valbrevenna. Dini non è uno scrittore di mestiere, ma questo è il suo secondo libro ambientato nelle valli dell’Antola.

    La narrazione ha inizio nel 551 a.C. e questo è forse il percorso più bello tra le varie storie che si intrecciano a cavallo tra passato remoto e presente: dare un nome, un volto ai Liguri che abitavano queste valli in epoca così remota è infantilmente affascinante, così come cercarvi l’eziologia toponomastica. È un peccato che i romanzi storici abbiano così paura di avventurarsi al di fuori dei confini cronologici sicuri di mondi e civiltà che tutti credono di conoscere (i Romani, per dire). Ma questo non è un romanzo storico.

    L’intreccio sembra ispirarsi al Codice da Vinci (che non ho letto, poco male): c’è una reliquia strettamente legata a Gesù, un intrigo internazionale… però il bello è che, con un breve episodio parigino, tutto è ambientato tra Genova, Crocefieschi e la Valbrevenna. E tutto sommato, l’ambientazione regge alla trama movimentata.

    Interessante, salvo occasionali momenti melensi, il personaggio dell’archeologa-super-esperta Mary Armanino, nella sua sfaccettatura di discendente di emigrati. Altrimenti è un po’ troppo “super” per essere credibile: bellissima, bravissima, al soldo di una organizzazione internazionale potentissima che mi ha ricordato per certi versi la SD-6 della serie tv Alias. Gli altri personaggi sono nella parte, ognuno al suo posto: i bravi sono bravi e i cattivi sono cattivi. Questo è un po’ noioso, in fin dei conti, specialmente alla fine, anche perché non si capisce (eticamente) per quale motivo Zevi che vuole tenere per sé la reliquia sarebbe più “buono” dei “cattivi” che la vogliono usare per i loro fini. Certo, c’è una dose di mistero che aleggia su di essa, c’è la segretezza assoluta resa indispensabile dal coinvolgimento di organizzazioni di altissimo livello…

    La lettura è piacevole, ma ci sono qua e là delle cadute di stile abbastanza evidenti. L’insistenza sull’attrazione fisica di Marco per Mary è sinceramente eccessiva (i momenti di sfogo di questa attrazione sono un po’ da Harmony ma lasciamo passare..), ed è un po’ troppo dettagliata la descrizione fisica e psicologica che viene fatta di ogni personaggio (anche minore) alla sua prima apparizione.

    Sotto molti aspetti mi piace pensare che questo libro si possa classificare come letteratura di serie D: dove la “d” sta per dilettante nel senso originale e positivo del termine, ovvero di qualcuno che trae diletto dalla scrittura, e che la affronta con passione. Rispetto alle serie A, B, C manca, a mio avviso, un lavoro di editing significativo che è caratteristico della produzione professionale.

    La pietra scritta di Senarega è pubblicato da LiberoDiScrivere (sulla pagina della scheda si legge anche la prefazione scritta da … mio padre, e il primo capitolo).

  • Middlesex

    Dopo almeno sei anni che lo vedevo girare sulle scrivanie e nelle borse degli amici, sono riuscito a leggere Middlesex di Jeffrey Eugenides, e a capire perché avrei dovuto leggerlo prima. Ma ogni libro arriva quando è il suo (e nostro) momento.

    Se devo dare una colpa per questo ritardo, punterò il dito contro la copertina. Sì, sto parlando di te, Oscar Mondadori. Perché mai questa immagine in copertina?

    Perché Middlesex è bello. Una bella storia, scritta bene (da un premio Pulitzer, direte “bella scoperta”). Sono un occasionale divoratore di libri, ma non mi capita tanto spesso di leggere 602 pagine in meno di 12 ore. Eppure così ho fatto, complice un lunghissimo viaggio dall’aeroporto di Heraklion a Marzano ai primi di agosto. Forse essere in viaggio aiuta a far scorrere questa storia di tre generazioni che inizia nel 1922 in Asia Minore. Forse aiuta essere in Grecia, anche se in Middlesex si capisce a fondo la differenza tra stato e nazione (così difficile da concepire per un italiano).

    La prima parte è forse quella che mi ha catturato di più, perché nonostante tutto conosco così poco del 1922, delle guerre e delle deportazioni e delle persone che le hanno vissute. Si potrebbe dire: non ti basta la storia d’Italia? Non potresti interessarti dell’Istria? Sì, potrei. Ma negli ultimi 7 anni è in Grecia che ho passato sempre più tempo, che ho imparato piano piano a conoscere i posti, a riconoscere le parole ascoltate per strada. A capire la differenza tra il prima e il dopo le deportazioni di massa. Atene è diventata una città, dopo il 1922, per dire.

    Dopo ci sono storie che attraversano un secolo o quasi di storia americana, ma anche quella esce fuori poco alla volta. I genitori di Cal sono ancora degli immigrati, pur essendo nati a Detroit. Forse è proprio questo uno dei tratti distintivi della società statunitense raccontata da Eugenides, dove i personaggi sono gli immigrati, quelli che faticano a trovare un posto che sia il loro, che sono costretti a cambiare e a fare i conti con il cambiamento, fino all’ultimo. Come Cal.

    Tutto il libro è incredibile per la (paranoica?) attenzione ai particolari, che però scorre tranquilla, senza momenti di assurdo dettaglio. Non c’è nessuna sospensione del giudizio lì a fare capolino, perché è tutto storicamente e umanamente autentico, forse anche perché Eugenides ha sempre un tratto fortemente autobiografico (questo ovviamente si scopre leggendo la sua biografia). Il mio metro di valutazione è labile: conosco poco e niente la letteratura contemporanea a stelle e strisce, se escludo letture comunque inorganiche di Paul Auster e altri scrittori. Poi uno scrittore che in 18 anni ha pubblicato 3 romanzi si lascia comunque apprezzare: mal che vada il tempo perso non è moltissimo. Accidenti alla copertina, sono appena in tempo per leggere il nuovo romanzo di Eugenides.

  • The Iron Heel

    The Iron Heel è un romanzo di Jack London pubblicato nel 1908. Visto che Jack London è morto nel 1916, The Iron Heel, così come tutti gli altri suoi romanzi, è nel pubblico dominio. Ultimamente ho deciso di dedicare una parte delle mie letture ad opere di pubblico dominio: in effetti, moltissimi classici sono in questa condizione. Mi ero ripromesso di leggere questo romanzo qualche mese fa, dopo aver letto dei brevi racconti distopici di poco successivi a questo.

    Ho letto il libro in digitale sul mio netbook. Non comodissimo, ma in fin dei conti la lettura scorre agevolmente.

    Ovviamente in Italia di Jack London sono noti soprattutto i romanzi “avventurosi” ambientati nel Klondike, che facevano parte della letteratura d’infanzia standard ancora una ventina di anni fa (oggi, non lo so). Questo è un London molto diverso, per certi versi precursore di opere molto famose come 1984 e apertamente socialista. Ci sono elementi tradizionali come il rinvenimento di un manoscritto secoli dopo la sua stesura, anzi in questo caso è il manoscritto a costituire il corpo principale del romanzo, interrotto dalle note a volte lunghissime del narratore, che vive in un 27esimo secolo in cui il socialismo ha realizzato i suoi programmi, dopo quattro secoli di oppressione da parte dell’oligarchia capitalista, del tallone di ferro.

    È davvero notevole il fatto che London scriva nella prima persona di Avis Everhard, cioè di una donna. Forse questo personaggio femminile non è riuscitissimo, nel senso che ha un percorso lineare che la porta in brevissimo tempo da essere una “figlia di papà” di inizio ‘900 a rappresentare il fulcro di una organizzazione internazionale socialista sotto copertura. Ma in fondo non è quello l’obiettivo: i personaggi di The Iron Heel sono quasi allegorie delle rispettive classi sociali che rappresentano, di traiettorie possibili e impossibili negli Stati Uniti d’America di cento anni fa.

    La popolazione nera è ancora “gente dell’abisso”, se si esclude la fugace apparizione di Jackson nei primi capitoli del libro. La rivoluzione socialista richiede il sacrificio di migliaia e migliaia di persone: la tensione è sempre oltre il presente. Nel romanzo solo la prospettiva “aliena” di Meredith, uomo del futuro socialista, rende accettabile l’ingenuità degli uomini e delle donne del presente e la loro fede incrollabile.

    Un discorso a parte merita la fine del romanzo. Anche qui (per quanto ne posso sapere io, almeno) London rompe gli schemi: da un lato sceglie uno stratagemma infantile per non allungare eccessivamente la storia, ed evitare di doversi dilungare dopo che gli eventi sono precipitati, perché tutto quello che succederà dopo la fine del manoscritto è già scritto, e all’oppressione succederà la rivoluzione. Dall’altro, ci vuole un bel coraggio (letterario) a lasciare una storia praticamente a metà.

    The Iron Heel si scarica dal progetto Gutenberg, ed è anche nella collezione di audiolib(e)ri di LibriVox.

  • C’è in Italia un pensiero post-colonialista dell’archeologia?

    Appunti presi sulla spiaggia di Preveli a Creta il 17 luglio 2011 e scarsamente rielaborati in seguito. Il discorso merita di essere approfondito.

    C’è in Italia un pensiero post-colonialista dell’archeologia? Mi pare di no. Non credo che l’archeologia colonialista abbia necessariamente a che fare con il fascismo: lo precede (in alcuni casi di diversi decenni, come peraltro il colonialismo in generale) e gli è sopravvissuta. Probabilmente questa identificazione contribuisce ad azzerare il problema coloniale e l’ipotesi post-colonialista come una questione già risolta.

    Eppure il problema c’è. Riesco a pensare ad almeno tre punti di partenza:

    1. il metodo di scavo, sia in relazione all’uso di manodopera locale, sia più in generale nelle tecniche e strategie;
    2. il rapporto con l’agenda culturale locale e la ricerca archeologica, storica, etc. del paese/paesi ospitanti;
    3. il rapporto con l’esotico e collocamento del luogo dove si opera in una dimensione “altra”, l’identificazione del presente con il passato e innamoramento temporaneo dell’esotico.

    Il punto 1 è forse quello più semplice da sviscerare e modellizzare: grandi aree o sondaggi, scavi pluridecennali o di breve durata, pochi archeologi e molti operai oppure pochi operai e molti archeologi, scavo oppure ricognizione. E ancora: approccio oggettivo, antichistico e definito oppure cangiante, riflessivo. Un sottoproblema è anche da ravvisare nelle forme gerarchiche del lavoro: pochi capi con precisi obiettivi e ampie conoscenze possono essere seguiti da giovani studenti e ricercatori in formazione con interessi specifici, anche di dettaglio, oppure essere semplicemente al seguito, in un luogo come un altro (e da qui la sciocca attesa di un metodo universale, buono per ogni contesto). Temo che questa situazione sia molto diffusa, non solo nell’ambito della ricerca italiana. In termini generali, può essere descritto come una mancanza o carenza di consapevolezza, che peraltro è tipica del post-colonialismo “per necessità”: il colonialismo vero conosce la lo storia passata e recente anche perché ha bisogno di essere a stretto contatto con il potere. L’ignoranza della storia recente, che è strettamente legata all’“appiattimento” del punto 3, è un punto piuttosto importante, che fa anche capire come un approccio binario al problema non possa essere esaustivo.

    Ritornando sul rapporto con il fascismo, mi sembra importante rimarcare una accezione ampia del concetto di colonialismo, in cui la ricerca delle origini (dalla remota preistoria alle innumerevoli “albe della civiltà”) o del mediterraneo impero antico non sono gli unici svolgimenti del tema. Come collocare altrimenti l’archeologia delle crociate o delle potenze mercantili, e il militarismo che studia fortificazioni d’ogni epoca?

  • Amsterdam, here I come

    The excavation campaign in Vignale is over, and a new season of study and research is just beginning for me. The next 12 months are the last year of my doctorate. To get a wider picture of ceramic studies beyond the traditional chronological limits of Late Antiquity (or, to put it more smartly, to follow Peter Brown’s own definition of it), I’m heading to Amsterdam today for a 3-days conference on “Fact and fiction in medieval and post-medieval ceramics in the Eastern Mediterranean”, organised at UvA by Dr. Joanita Vroom.

    As usual, I will share my notes from the conference on a shared notepad (here).

    By the way, this is the reason why I’m not going to Open Government Data Camp in Warsaw. Good luck to all the friends there!

  • Eleutherna: first week of excavation on the Acropolis

    On the 23rd August Elisa and myself came back to Crete for another week of archeological excavation, this time in Eleutherna with the University of Crete.

    Eleutherna: Sector II – Acropolis

    Dr Christina Tsigonaki came to visit our excavation in Gortyna last month and she was very kind to invite us in Eleutherna. The excavations here are one of the best in Greece, also for the very good quality of publications. The work of Christine Vogt and Anastasia Yangaki on the ceramic finds from Eleutherna is a point of reference for my research, even if mine is based in Gortyna and the ceramic evidence is quite different, also judging from what I have seen in these first days.

    Eleutherna: Pyrgi – the tower

    The excavation team is directed by Dr Tsigonaki and the people, all students from the University of Crete, are very nice ‒ it’s a pleasure to work with them and to learn some more Greek from their mouth. We start working at 7:00 am until 2:30 pm and finds washing takes place at the local school (now unfortunately empty) from 5:30 pm until 9:30 pm. The documentation system is based on SYSLAT, the one developed on the French site of Lattara/Lattes, and it’s not so different from others I have used before. Everybody is doing their own bit of everything (washing, keeping records, writing short descriptions of sherds, etc), there’s not much specialisation but it’s an effective way of teaching the basics of how to run an archaeological excavation.

    The Acropolis of Eleutherna is also an ideal archaeological context for looking at the development of “hilltop” settlements from Antiquity into the Byzantine era: this is in a few words Elisa’s research topic.

  • In bici al Brugneto

    Oggi breve giro in bici fino alla diga del Brugneto con mio padre. Fuori allenamento, è stato abbastanza faticoso. Il livello dell’acqua nel lago è basso, ma non al minimo.