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  • L’indifferenza per la morte di Mame Mor Diop

    Il 19 luglio 2013 a Ventimiglia è morto Mame Mor Diop. Magari lo avete letto su un quotidiano (Repubblica.it, TeleNord). Stava scappando dalla polizia perché era un venditore abusivo. Tutti i venerdì si tiene a Ventimiglia un mercato tra i più grandi d’Europa (dicono). Forse è fisiologico che ci siano venditori abusivi su un mercato così grande, ma a ogni modo, ci sono le forze dell’ordine che di mestiere fanno i controlli. La paura dei controlli e la breve fuga attraverso la foce del fiume.

    La foce del Roia, dove è annegato Mame Mor Diop
    La foce del Roia, dove è annegato Mame Mor Diop. La corrente è molto forte.

    Nel luogo dove questo uomo di 25 anni è morto non c’è niente a ricordarne la scomparsa, la fine assurda. C’è solo un volantino tenuto da due ciottoli ai piedi del monumento ai caduti in mare. Nel volantino si racconta la vicenda con toni un po’ meno asciutti di come sto facendo io. La si colloca nel più ampio contesto di una repressione locale a cui fa da rovescio la totale indifferenza dei passanti, dei bagnanti, degli acquirenti. A me ha dato fastidio che in tutto questo foglio A4 pieno di parole non ci fosse scritto neanche il suo nome. Mame Mor Diop. Morto il 19 luglio 2013.

    Uno dei volantini di denuncia.
    Uno dei volantini di denuncia, lasciato sotto il monumento ai caduti in mare.

    Di questi volantini ho visto un paio di altre copie sulla passerella che attraversa il fiume. Quanto dureranno è difficile dirlo. Certamente più della memoria degli indifferenti, che è già finita.

    Un altro volantino. Su questo qualcuno ha scritto “clandestino“.
    Un altro volantino. Su questo qualcuno ha scritto “clandestino“. Tanto per mettere le cose in chiaro.
  • Antinoe brucia. Colonialismo e archeologia romana

    Antinoe è in preda ai saccheggi incontrollati. Non da ieri, come aveva già ampiamente segnalato Cinzia dal Maso su Filelleni. La città fondata da Adriano è abbandonata a se stessa e gli abitanti preferiscono i guadagni facili degli oggetti venduti “illegalmente” alla tutela del sito archeologico con cui convivono. Come sempre in questi casi, la situazione drammatica genera indignazione in un pugno di addetti ai lavori: non abbiamo abbastanza vite per firmare tutte le petizioni a difesa del museo che chiude, del sito distrutto dalla strada, del monumento deturpato dalla nuova costruzione, del paesaggio rovinato dalle pale eoliche. Antinoe però non è un sito come tutti gli altri, e infatti la notizia (con i suoi tempi) arriva sulle pagine de La Stampa. Maurizio Assalto il 7 giugno scorso ha raccontato questa brutta storia, raccogliendola direttamente dalla voce di Rosario Pintaudi, uno degli archeologi italiani (papirologi? egittologi? siamo così provinciali) che svolge ricerche nella antica e sfortunata Antinoupolis. Leggiamo il passo in cui Assalto ci offre la sua incitazione ad indignarci:

    Una situazione drammatica, che dovrebbe coinvolgere in particolare noi italiani non soltanto perché Antinoe è stata fondata da un imperatore romano, sia pure di origine iberica, ma anche perché al sito lavorano dal 1935 missioni del nostro Paese – dopo che a fine ’800, in capo a un secolo di devastazioni di ogni genere, vi erano passati i francesi, con Albert Gayet, e prima della Grande guerra gli inglesi alla ricerca di papiri. Eppure, tra una crisi economica e una politica, da Roma nessuno si è fatto sentire. Le stesse autorità egiziane non sembravano troppo interessate, e si capisce, perché i lasciti romani sono sentiti come estranei al patrimonio locale (tanto è vero che si sono mosse soltanto quando hanno saputo che era minacciato anche un tempio costruito in zona da Ramesse II), e del resto un turista che si avventura sulle sponde del Nilo cerca le vestigia dei faraoni più che quelle dei dominatori successivi.

    Ricapitoliamo:

    1. Adriano era di origine iberica (quasi extracomunitario e pure frocio, diciamolo) ma comunque è stato un imperatore romano, roba nostra
    2. tutto il territorio interessato dall’Impero romano, o perlomeno tutte le città fondate da imperatori romani, devono essere di immediato interesse non solo dei cittadini italiani, ma anche del Governo (“Roma”)
    3. per fortuna nel 1935 sono arrivati i bravi archeologi italiani a salvare Antinoe dai precedenti saccheggiatori e dai cercatori di papiri
    4. rimanendo sulle sponde del Nilo per appena un migliaio di anni, il regno tolemaico e l’Impero romano sono chiaramente “dominatori” dell’Egitto e per questo le loro vestigia vengono liberamente sottoposte a saccheggio

    Tanto per capirci, sono 9 anni che partecipo a una missione archeologica all’estero, con qualche problema politico-militare in meno rispetto a quella in questione, ma con tutti gli stessi problemi etici e culturali. Da diversi anni mi pongo il problema di cosa ci stiamo a fare noi archeologi a casa degli altri. Ci sono oltre 150 missioni archeologiche italiane all’estero, limitandosi solo a quelle che il Ministero degli Esteri sostiene (solo in parte, ça va sans dir), tra le quali peraltro l’Egitto occupa il primo posto insieme alla Turchia (14 missioni). Ho avuto modo di ascoltare i ricercatori fiorentini alcuni anni fa e ricordo nelle loro parole la stessa sensazione di fragilità per l’equilibrio precario che sempre si crea tra missioni archeologiche e comunità locali (all’estero, in Egitto, in Grecia così come in Maremma e in Salento). Il patrimonio archeologico non è solo di chi ci abita a fianco, ci mancherebbe. Ma per secoli noi civili sapiens sapiens abbiamo “salvato” questo patrimonio strappandolo alle sue radici, decidendo cosa era di valore e cosa no, costruendo una fiaba crudele di impero rinnovato. Leggete chi e come ha partecipato alla lunga stagione degli scavi italiani in Egitto sul sito dell’Istituto Papirologico “G.Vitelli” per farvi un’idea. Personaggi di altissimo livello come Ernesto Schiaparelli (Senatore del Regno), Carlo Anti (rettore dell’Università di Padova), Evaristo Breccia (rettore dell’Università di Pisa). Ma dal 1935 ad oggi la missione civilizzatrice non ha funzionato. Colpa dei selvaggi abitanti di Sheikh ‘Ibada? Forse no, non solo. Rileggete la storia degli scavi e concentratevi sui nomi dei luoghi: Hermopolis Magna, Ossirinco, Tebtynis, Ankyronpolis, Antinoe. Ci muoviamo nel presente degli altri ignorandolo, abbiamo solo occhi per il nostro passato, che era lì, nello stesso posto dove si scava alla ricerca di papiri. Un esame di coscienza… si può rinunciare a indignarci allora? No.

    Ma il valore di questo patrimonio non è assoluto, scolpito nella pietra (scusate la facile ironia). In Italia lo abbiamo scritto nella Costituzione, e tanti se ne fregano comunque. E forse l’indignazione non è ancora giunta alle orecchie di Assalto, ma nello stesso modo vengono regolarmente depredati anche i siti di età dinastica e predinastica in Egitto, che non sono certamente “estranei al patrimonio locale”. In Siria, in Iraq, in Libia, abbiamo visto le stesse immagini, la stessa indignazione verso persone ignoranti o disperate o proprio infami che distruggono il proprio passato o quello di un popolo intero per soldi (pochi o tanti, dipende dagli acquirenti, quasi tutti maschi bianchi). Abbiamo visto un po’ meno indignazione quando persone coltissime stringevano amicizia con chi distrugge il presente e il futuro del popolo siriano. Se il dubbio è tra regimi repressivi e devastazione del patrimonio archeologico, c’è qualcosa che non va nella nostra missione civilizzatrice. Se su un quotidiano “colto” come La Stampa si leggono queste amabili idee colonialiste, basta chiudere gli occhi e sembra davvero di essere tornati al 1935 e ad un imperatore torinese.

  • MAPPA video contest: still a long way to go

    The friends of MAPPA Project have put up a video contest for their second and final workshop. Participants had to submit a 3-minutes video (or multimedia presentation, and this point had a very important effect on the results). You can vote until 15th June, one video per category. The videos are listed on the MAPPA website.

    Go and have a look: there are 20 videos, it would take you one hour to see them all. Actually, it took me much less than that. Why? Because most of them are not really videos, but rather mute slideshows. First I will give some stats, and after that I’d like to add a brief comment.

    On the audio side:

    • 10 out of 20 videos are mute, no sound, no music, no voice ‒ mostly an (animated) slideshow
    • of the other half, 7 have only a music background
    • only 3 have a recording of human voice

    Looking at the video part:

    • 14 out of 20 are, as said above, simple slidehows of a (PowerPoint/Impress/Keynote/Prezi) presentation
    • the remaining 6 show a mixture of video footage, 3d models and slides

    I have been following the topic of video-making in archaeology since 2008, when I made my first appearance in a docudrama thanks to my friend Cioschi. I am far from being an expert, but I am an opinionated archaeologist and to me the stats shown above sound like a disaster. After all these years, the majority of (Italian) archaeologists still thinks that a mute slideshow is good enough to take part in a video contest..? I don’t like to dismiss the work of other people as badly done, so I will try and look at the positive side, that is the two videos that caught my attention. I am definitely encouraging you to vote for these two ‒ not only because they are well done, but in the end I think we all need good models to follow and this contest is a good chance to provide such models.

    The two videos I liked are, unsurprisingly, those where there is a human voice. The first one is #4 “Invisibile Heritage: The Paradox of Landscape” by G. Di Pasquale and others:

    What’s so good about this one? The video footage is of high quality. The voice is telling a story, with a calm tone. Overall, it could be an excerpt from a longer video suitable for TV. However, there is still something missing: people. This is probably done on purpose, exactly because there is an almost obvious model in those TV documentaries where only landscape is seen and the voice provides a commentary.

    However, I liked a lot more entry #12 by Giuliano De Felice and Francesco “Cioschi” Ripanti, called “Cannoni e farfalle” (Cannons and butterflies):

    What’s so special about this one? There are three actors, with dialogues and a storyline. The footage is of good quality, and I really liked the photography with the contrast between dark and light. The setting is a familiar one, with dozens of crates filled with pottery. The plot provides a situated explanation of why open access is important, not an absolute one (much in the same spirit as the out of contest video where Socrates is seen engaging with other philosophers…). There is a musical background for the slides. This video is well-executed and it is clearly meant to fit into the 3-minutes slot from its inception. The model in this case is IMHO clearly represented by short videos shown in popular political TV shows where interviews and graphics are intertwined at a fast pace, both giving some factual information and involving the spectator on a more emotional level. Here the pace is quite slow, even though there is a mild contrast between the calmness of the dialogue and the music.

    Nothing like the above could be said about all the other videos. They may be video files uploaded on a video platform, but there is no trace of “video” being used as a communication language. We really need to improve that. It’s not about using a video-editing program, that is useless if there is no storyline or even worse no story at all. I think this may be the right time to tackle this problem.

    As a final disclaimer, I want to point out very clearly that I have the privilege of being friends with both Giuliano and Cioschi, so I may be biased here because I have been discussing these issues with them for some time now. And I also know Di Pasquale and some of his colleagues. Actually, I know some of those who submitted other entries in the contest, too. I hope they will understand my comments here are purely technical and with the needed training they will be able to create beautiful videos to present and promote their work. Videomaking is crucial for public archaeology: let’s get it right!

  • Paesaggio e infrastrutture

    Oggi la sottosegretaria Borletti scrive:

    promuovere il patrimonio culturale senza infrastrutture per viaggiare e’inutile.Ci aspetta un lavoro enorme ma la strada e’quella.

    https://twitter.com/ilaborletti/status/331144062834978817

    Pochi giorni fa il presidente Letta ha detto:

    Per questo dobbiamo rilanciare il turismo e, soprattutto, attrarre investimenti. Rimuoviamo quegli ostacoli che fanno sì che l’Italia per molti non sia una scelta di vita. Questo significa puntare sulla cultura, motore e moltiplicatore dello sviluppo, o sulle straordinarie realtà dell’agro-alimentare. Questo significa valorizzare e custodire l’ambiente, il paesaggio, l’arte, l’architettura, le eccellenze enogastronomiche, le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali.

    Parlando di patrimonio culturale onestamente la rete delle infrastrutture non è esattamente il primo punto che viene in mente. Chissà se si riferiscono al TAV o alla Cuneo-Ventimiglia, alla BreBeMi o alla provinciale 34 della Provincia di Siena. Sarei un po’ preoccupato, se il patrimonio culturale assumesse un valore solo come meta turistica.

  • GFOSS news

    I’ve been meaning to do this for a long time now (since 2009 apparently). I am proud to announce the first issue of GFOSS news, a newsletter from and about the GFOSS community with a focus on Italy.

    GFOSS news

    The tagline is “software, dati, persone” (software, data, people) and it is exactly like that. It’s a short summary of what has been going on in the past month: software releases, community events (including the much-discussed resignation of the association’s board) and other relevant news. News items are very short, which is in itself kind of unusual for the average Italian written text.

    It is nothing original of course: all news come from OSGeo and GFOSS mailing lists, Planet OSGeo, Planet GIS Italia, Twitter and other sources (with links to the original announcements).

    Spread the word, and submit your ideas for the next issue!

  • Un articolo per la prossima legge elettorale

    Pare che nel programma del nuovo governo ci sia anche una nuova legge elettorale. Ma l’ho sentito dire da troppi governi per crederci veramente. Comunque. Che si faccia doppio turno alla francese, tedesco misto con mostarda, carpiato in e-voting o democrazia diretta (SVEGLIA!!11!!) c’è una cosa che potrebbe essere nella prossima legge elettorale. Non ne ho sentito parlare, quindi la scrivo qui se qualcuno volesse leggerla e farne qualcosa. È molto semplice.

    Un cittadino può essere candidato per l’elezione nel parlamento italiano in un solo collegio elettorale, quello di residenza.

    Basta con i leader politici candidati in tutte le regioni (tranne la Valle d’Aosta). Basta con i paracadutati. Anche chi è talmente dissennato da votare un partito senza primarie ha diritto ad avere dei rappresentanti che abbiano un legame con il territorio. Magari potrebbe bastare “un solo collegio” lasciando perdere la residenza? Io credo di no.

    Risolverà i problemi? No. È un ingrediente per una ricetta. Ai cuochi l’ardua sentenza.

  • In una remota valle sui contrafforti del monte Antola

    L’anno scorso l’Istituto LUCE ha pubblicato migliaia di video sul proprio canale YouTube. Nonostante la quantità strabiliante di materiale, le possibilità di ricerca e organizzazione del materiale sono a dir poco scarse, come avevo già notato in precedenza.

    Schermata da genova-in-cammino-brugneto.webm

    Quando nel 2011 ho visitato il Museo AMGA di Genova, il curatore mi ha mostrato, oltre alla vasta collezione di documenti e fotografie riguardanti la storia degli acquedotti di Genova e la costruzione della diga del Brugneto, anche alcuni filmati che il museo aveva recuperato anni prima proprio negli archivi LUCE. Oggi tramite Luca Corsato scopro che l’archivio LUCE è sbarcato anche su Europeana, la grande biblioteca digitale d’Europa, e riesco finalmente a trovare uno di questi spezzoni video che su YouTube mi erano finora sfuggiti.

    È un filmato di 9 minuti e 49 secondi intitolato “Genova in cammino”, del 1956. Vi consiglio di guardarlo tutto. Fa riflettere molto sull’origine dei problemi attuali di degrado e conflitto sociale (la gara tra Comune e privati per la costruzione di abitazioni, la costruzione di quartieri periferici per lasciare intatta l’architettura del centro, gli alloggi popolari, la continua lotta contro la natura) e ci sono alcune parti veramente avveniristiche, specialmente quella in cui viene descritto il sistema dell’anagrafe che permette di avere i certificati rapidamente negli uffici periferici tramite telescrivente (un primato europeo di Genova stando al filmato). È una narrazione del grande risveglio di Genova, il cui nome “suscita nel cuore di tutti gli italiani un’immagine di forza e di potenza, di lavoro e di prosperità”…

    Schermata da genova-in-cammino-brugneto.webm - 1

    Imprescindibile per questa città “intercontinentale” è un acquedotto in grado di fornire acqua a sufficienza per lo stile di vita di una città in piena crescita. Ed ecco che il filmato ci fornisce alcune scarne notizie sulla costruzione dell’acquedotto del Brugneto. Lo spezzone dura meno di un minuto (dal minuto 3:19 al minuto 4:13) ma contiene in sintesi tutta l’ideologia del progetto.

    Genova in cammino – La costruzione della diga del Brugneto

    Ecco la trascrizione del commento:

    Ma c’è un problema che sta particolarmente a cuore dei genovesi: quello dell’acqua, che negli ultimi quarant’anni era sempre rimasto allo stadio delle discussioni. Il nuovissimo acquedotto permetterà domani di godere di una quantità di acqua potabile doppia dell’attuale. Il problema degli impianti del Brugneto, che stanno sorgendo in una remota valle sui contrafforti del monte Antola, era quello del finanziamento. L’amministrazione democratica è riuscita a superare le difficoltà, grazie ad un mutuo della Cassa Depositi e Prestiti per l’ingente somma di otto miliardi e ottocento milioni di lire. Ciò ha consentito l’inizio immediato dei lavori che porteranno entro il 1960 alla soluzione di questo problema essenziale per la vita della città.

    Schermata da genova-in-cammino-brugneto.webm - 2

    Ora non voglio entrare nel lungo discorso del terzo valico e del TAV Torino-Lione, ma mi sembra chiara l’analogia. Ricordo solo che negli anni 1980 e 1990 un secondo invaso artificiale nella vicina valle del Cassingheno fu lungamente contestato e infine abbandonato: il rapporto tra città e territorio era già completamente cambiato e non era più possibile sgomberare una “remota valle” con i suoi abitanti per i bisogni della città senza che il territorio stesso venisse interpellato (anche se non è certo solo per questo che la diga sul Cassingheno non venne realizzata). Una delle cose che più mi aveva colpito nel consultare l’archivio fotografico al Museo AMGA era proprio la totale assenza dei rappresentanti delle comunità locali: figurano progettisti, il sindaco di Genova e forse qualche altra personalità foresta ma mai un sindaco di Propata, Fascia o Torriglia ‒ eppure la val Brugneto allora come oggi era divisa tra tre comuni (più Montebruno, agnus inferior).

    Sono sicuro che esistano altri filmati e forse verranno pubblicati in seguito (o magari sono già su YouTube ma non sono riuscito a trovarli). Intanto questo mi sembra un documento importante per raccontare la storia dei Frinti, un paese sommerso.

    Aggiornato a settembre 2019 grazie a Marta Mangiarotti che mi ha segnalato il link non funzionante al filmato. Ho trovato un link aggiornato funzionante.

  • Spark plugs and archaeological finds: where do the ethics of fieldwork stop?

    Spark plugs and archaeological finds: where do the ethics of fieldwork stop?

    Yesterday I posted a picture of a crate with sherds of Roman pottery and a spark plug. That was fun to find and look at, because of course a spark plug is an out-of-place artifact among archaeological finds. Or rather, it is not at all.

    As Lewis Binford would argue, both Roman pottery and the lonely spark plug live in the present, regardless of when they were made. Archaeologists like to think of storage buildings as “sacred” spaces of cleanliness, order and rest for the countless finds we unearth every day. That’s what manuals prescribe, so it must be like that. However, as anyone who has seen some of these rooms filled with crates and boxes knows, disorder and dirt is the rule, not the exception. There is rarely, if ever, a clear-cut separation between storage of finds and working tools, or in the best cases between storage and display. Corridors are always blocked by other crates that couldn’t find a place on the shelves. Finding where one specific crate is may take one minute, but it is always pulling it out that will keep you busy for ten or fifteen minutes. All this provided that proper archive records exist and that you can get a list of where things are, and that may prove difficult or even impossible, regardless of who is in charge of producing such a list (heck, you may be responsible in most cases). That spark plug is not there to annoy or bemuse, it is just a gentle reminder that labels and clean sherds do not stop things from happening, objects from moving (shelves collapsing, crates of any material rotting away and breaking) and people interacting with them all the time. There you have it, a storage room filled with archaeological finds is a living context, and one that should not look unfamiliar to an archaeologist.

    Me with a mask
    Me with a dust mask. Is that enough for punk archaeology? On the back, the usual suspect crates of finds.

    Sub-optimal working conditions, uncontrolled temperature (both cold and hot), dust everywhere, need to move heavy loads: this list may be just a random sample of the small everyday glitches of archaeological fieldwork … including that of the finds specialist, and of the assistant to the finds specialist, and of the person working to keep that sacred space clean and accessible (whatever their job is called).

    There is an hopefully increasing consciousness of the beauty and significance of “digging the dirt” (best exemplified by works as Between dirt and discussion by Gavin Lucas) in archaeological fieldwork. Dirt is qualifying archaeology, and attempts to leave it out of archaeological discourse are demeaning. No matter how much you clean them, potsherds are still pieces of fired clay found in the soil. Let us bring more of that consciousness out of the trenches, because in the end the substantially boring nature of our work is the same.

    Crazily enough, I am discussing most of the above in my dissertation.

  • Unexpected archaeological finds

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    I think it may be Late Bronze age. Early Iron age even.