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  • Sono tornati i daini

    Sono tornati i daini

    Sono tornati i daini qui a Torriglia.

    Solo pochi giorni fa dicevamo con mio padre che da molti mesi non si vedono più daini, mentre fino alla primavera erano un incontro quotidiano. Lui diceva anche che ultimamente ha sentito bramire i caprioli.

    Poi l’altroieri ho visto tre daini nel prato di Parodi a Casabianca. E ieri sera li ho rivisti alla Crocetta, e dopo cena erano sotto casa nostra, come se ci avessero sentito e volessero farci sapere che non è vero niente, loro ci sono.

    Chissà perché sono comparsi così all’improvviso. Qui nei giorni scorsi era ancora caldo, ma può darsi che in quota avesse già iniziato a fare più freddo, o che l’erba sia finita o comunque sia la stagione di scendere a valle, qualunque cosa voglia dire la stagione, ormai. Oggi tira vento e potrebbe fare freddo davvero tra qualche giorno. Speriamo.

    Non è che prima non mi interessassero i daini.  Ma dopo essere stato in Patagonia gli animali selvatici non sono più gli stessi, nemmeno qui. Lì ho visto come possono vivere, anche in un ambiente comunque antropizzato, con allevamento di animali al pascolo. E ho l’impressione che qui ci sia qualcosa che non va.

    Sono contento che siano tornati i daini. Oggi ho perso ore a cercare un paio di foto che ero sicuro di avere scattato qualche anno fa, volevo usarle per illustrare questa pagina di blog ‒ alla fine le ho trovate.

  • Yet another failure for cultural heritage data in Italy

    Yet another failure for cultural heritage data in Italy

    This short informative piece is written in English because I think it will be useful for anyone working on cultural heritage data, not just in Italy.

    A few days ago the Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione published an internal document for all offices in the Ministry of Culture (actual name is longer, but you got it), announcing imminent changes and the beginning of a process for publishing all records about cultural heritage items (I have no idea on the exact size but we’re in the millions of records). In short, all records will be publicly available, and there will be at least one image for each record ‒ you’ll get anything from small pieces of prehistoric flint to renaissance masterpieces, and more. That’s a huge step and we can only be happy to see this, the result of decades of cataloguing, years of digital archiving and … some lobbying and campaigning too. Do you remember Beni Culturali Aperti? The response from the ICCD had been lukewarm at best, basically arguing that the new strong requirements for open government data from article 68 of the Codice dell’Amministrazione Digitale did not apply at all to cultural heritage data. So nobody was optimistic about the developments to follow.

    ·

    And unfortunately pessimism was justified. Here’s an excerpt from the document published last week:

    Brano della nota prot. n. 2975  del 17/11/2014 dell'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
    Nota prot. n. 2975 del 17/11/2014 dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione

    relevant sentence:

    Le schede di catalogo verranno rese disponibili con la licenza Creative Commons CC BY-NC-SA

    that would be

    Catalog records will be made available under the Creative Commons CC BY-NC-SA license

    And that was the (small) failure. CC BY-NC-SA is not an open license. The license makes commercial (= paid!) work with such data impossible or very difficult, at a time when the cultural heritage private sector could just benefit from full access to this massive dataset, with zero losses for the gatekeepers. At the same time when we have certified that open licenses are becoming more and more widespread and non-open licenses like BY-NC-SA are used less and less because they’re incompatible with anything else and inhibit reuse, someone decided that it was the right choice, against all internationa, European and national recommendations and regulations. We can only hope that a better choice will be made in the near future, but the record isn’t very encouraging, to be honest.

  • Archaeology in the Mediterranean: I don’t wanna drown in cold water

    Archaeology in the Mediterranean: I don’t wanna drown in cold water

    This post is the second half of the one I had prepared for this year’s Day of Archaeology (Archaeology in the Mediterranean: do not drown if you can). For an appropriately timed mistake, I only managed to post the first, more relaxed half of the text. Enjoy this rant.

    Written and unwritten rules dictate what is correct, acceptable and ultimately recognised by your peers: it is never entirely clear who sets research agendas for entire disciplines, but ‒ just to be more specific ‒ I feel increasingly stifled by the “trade networks” research framework that has dominated Late Roman pottery studies for the past 40 years now. Invariably, at any dig site, there will be from 1 to 100,000 potsherds from which we should infer that said site was part of the Mediterranean trade network. We are all experts about our “own” material, that is, the finds that we study, and apart from a few genuine gurus most of us have a hard time recognising where one pot was made, what is the exact chronology of one amphora, and so on. But those gurus, as leaders, contribute to setting in stone what should be a temporary convention as to what terminology, chronology and to a larger extent what approach is appropriate. I can hear the drums of impostor syndrome rolling in the back.

    I don’t want to drown in this sea of small ceramic sherds and imaginary trade networks, rather I really need to spend time understanding why those broken cooking pots ended up exactly where we found them, in a certain room used by a limited number of people, in that stratigraphical position.

    At the same time, I’m depressingly frustrated by how mechanical and repetitive the identification of ceramic finds can be: look at shape, compare with known corpora, look at fabric, compare with more or less known corpora. If any, look at decoration, lather, rinse, repeat. My other self, the one writing open source computer programs, wonders if all of this could not be done by a mildly intelligent algorithm, liberating thousands of human neurons for more creative research. But this is heresy. We collectively do our research and dissemination as we are told, with sometimes ridiculously detailed guidelines for the preparation of digital illustrations that end up printed either on paper or on PDF (which is the same thing). Our collective knowledge is the result of a lot of work that we need to respect, acknowledge, study and pass on to the next generation.

    At the end of the obligations telling you how to study your material, how to publish it, and ultimately how to think about it, you could just be happy and let yourself comfortably drown into the next grant application. Don’t do that. Do more. Follow your crazy idea and sail the winds of Mediterranean archaeology.

  • Targhe delle strade di Genova. Tipografia della lettera A

    Targhe delle strade di Genova. Tipografia della lettera A

    Da qualche settimana ho iniziato a collezionare lettere A. Le prendo dalle targhe delle strade di Genova e sto cercando di farmi guidare da queste “prime della classe” per prendere confidenza con la storia tipografica delle targhe, soprattutto di quelle più antiche ‒ approssimativamente datate prima del 1945. C’è qualcosa di affascinante nell’idea che queste targhe siano un unico smisurato testo steso per tutta la città, un palinsesto scritto in momenti diversi ma fatto per essere letto oggi.

    Da questa serie si notano alcuni elementi interessanti, soprattutto il passaggio dalla A con testa piatta a quella acuta. Le datazioni che ho abbozzato per ora sono poco più che ipotetiche, così come le riproduzioni dei caratteri che ho raccolto (da vero neofita della tipografia). È certamente possibile che ci siano ampie sovrapposizioni di tipi nel tempo, anche se  chiaramente ci sono stati dei momenti di impulso ordinatore e omologatore. Il mio tipo preferito è di gran lunga il secondo nell’immagine sotto, il più diffuso nel centro storico.

    La forma della lettera A
    La forma della lettera A

    Non so se esistano dei lavori dedicati a questo argomento, finora non ne ho trovati. Sto procedendo con metodo stratigrafico (poteva essere altrimenti?) e questo è naturalmente frustrante perché non permette datazioni precise se non avendo a disposizione una discreta quantità di dati, che non ho ancora. Mi sono sembrate molto interessanti quelle strade in cui in punti diversi si trovano targhe con tipi diversi (es. via Corsica e via San Vincenzo, entrambe interessate dalla costruzione di via XX Settembre).

    1. Se un tipo è usato su una targa dedicata a una persona morta
      nell’anno X, il tipo va considerato in uso dopo quella data e non a
      quella data esatta.
    2. Se un tipo è usato su una targa di una strada costruita nell’anno X,
      il tipo va considerato in uso dopo quella data.
    3. Se un tipo non compare su targhe databili dopo l’anno X,
      probabilmente è andato fuori uso intorno all’anno X.
    4. Se un tipo compare su un edificio costruito nell’anno X, non possiamo trarne alcuna informazione, in mancanza di indicazioni più precise.

    Tra gli eventi più significativi per l’urbanistica e la toponomastica di Genova sono certamente le due espansioni del 1873 e del 1926 ‒ sulla base di quelle è possibile ad esempio osservare i quartieri di Marassi e Staglieno (annessi nel 1873), Molassana  (annesso nel 1926). Girare per le strade, fotografare, prendere appunti… tutte cose non veloci. Ad un certo punto farò anche due passi a Staglieno, ovviamente.

  • Migrating a database from FileMaker Pro to SQLite

    FileMaker Pro is almost certainly one of the least interoperable cases of proprietary database management software. As such, it is the worst choice you could make to manage your data as far as digital preservation goes. Period.

    There is data to be salvaged out there. If you find data that you care about, you’ll want to migrate content from FileMaker Pro to another database.

    Things are not necessarily easy. If you work primarily on GNU/Linux (Debian in my case) it may be even more difficult. It can be done, but not without proprietary software.

    Installing FileMaker Pro

    You can get a 30-days free trial of FileMaker Pro (FMP): you may need to register on their website with your e-mail address. It is a regular .exe installer.

    Please note that, while other shareware programs exist to extract data from a FileMaker Pro database, there is absolutely no way to do it using free and open source software, and as far as I know nobody has ever done any reverse engineering on the format. Do not waste your time trying to open the file with another program: the FileMaker Pro trial is your best choice. Also, do not waste your time and money buying another proprietary software to “convert” or “export” your data: FileMaker Pro can be used to extract all of your data, including any images that were stored in the database file, and the trial comes at no cost if you already have one of the supported operating systems. After all, it is proprietary so it is appropriate to use the native proprietary program to open it.

    Extracting data

    Alphanumeric data are rather simple to extract, and result in CSV files that can easily be manipulated and imported by any program. Be aware however that you have no way to export your database schema, that is the relationships between the various tables. If you only have one table, you should not have used a database in the first place, but that’s another story.

    Make sure FMP is installed correctly. Open the database file.

    1. Go to the menu and choose FileExport records
    2. Give a name for the exported file and make sure you have selected Comma-separated values (CSV) as export format
    3. A dialog will appear asking you to select which fields you want to export.
      • Make sure that “UTF-8” is selected at the bottom
      • On the left you see the available fields, on the right the ones you have chosen
      • Click Move all ‒ you should now see the fields listed at the bottom right. If you get an error complaining about Container fields, do not worry, we are going to rescue your images later (see below)
      • Export and your file is saved.
    4. Take a look at the CSV file you just saved. It should open in Notepad or any other basic text editor. A spreadsheet will work as well and may help checking for errors in the file, especially encoding errors (accented letters, special characters, newlines inside text fields, etc.)
    5. Repeat the above steps for each table. You can choose the table to export from using the drop-down list in the upper left of the export dialog.

    Extracting images from a Container Field in FileMaker Pro

    If, for some unfortunate reason, image files have been stored in the same database file using a Container Field, the normal export procedure will not work and you will need to follow a slightly more complex procedure:

     Go to Record/Request/Page [First]
     Loop
          * Set Variable [$filePath; Value: Get ( DesktopPath ) MyPics::Description & ".jpg"]
        ** Export Field Contents [MyPics::Picture; “$filePath”]  
            Go to Record/Request/Page [Next; Exit after last]
    End Loop
    *Set Variable Options: Name: $filePath
     Value: Use one of the following formulas
    Mac: Get ( DesktopPath ) & MyPics::Description & ".jpg"
    
     Windows: "filewin:"& Get ( DesktopPath ) & MyPics::Description & ".jpg"
    
     Mac and Windows: Choose ( Abs ( Get ( SystemPlatform ) ) -1 ;
         /*MAC OS X*/
          Get ( DesktopPath ) & MyPics::Description & ".jpg"
     ;
          /*WINDOWS*/
          "filewin:"& Get ( DesktopPath ) & MyPics::Description & ".jpg"
     )
    
     Repetition: 1
    
     **Export Field Contents Options:
     Specify target field: Picture
     Specify output File: $filePath

    Migrating to SQLite

    SQLite is a lightweight, file-based real database (i.e. based on actual SQL). You can import CSV data in SQLite very easily, if your starting data are “clean”. If not, you may want to look for alternatives.

    Appendix: if you are on GNU/Linux

    If you are on GNU/Linux, there is no way to perform the above procedure, and you will need a working copy of Microsoft Windows. The best solution is to use VirtualBox. In my case, I obtained a copy of Microsoft Windows XP and a legal serial number from my university IT department. The advantage of using VirtualBox is that you can erase FileMaker Pro and Windows once you’re done with the migration, and stay clear of proprietary software.

    Let’s see how to obtain a working virtual environment:

    1. Install VirtualBox. On Debian it’s a matter of sudo apt-get install virtualbox virtualbox-guest-additions-iso
    2. Start VirtualBox and create a new machine. You will probably need to do sudo modprobe vboxdrv (in a terminal) if you get an error message at this stage
    3. Install Windows in your VirtualBox. This is the standard Windows XP install and it will take some time. Go grab some tea.
    4. … some (virtual!) reboots later …
    5. Once Windows is installed, make sure you install the VirtualBox Guest Additions from the Devices menu of the main window. Guest Additions are needed to transfer data between your regular directories and the virtual install.
    6. Install the FMP trial and reboot again as needed. Then you can open the database file you need to convert and follow the steps described above
  • Low back pain

    Low back pain

    I have been going through an acute event of low back pain a few months ago (the so-called colpo della strega), and I’m slowly recovering to normality ‒ still no lifting of heavy weights for me. It hurt me a lot, suddenly, but in retrospect it was not a surprise, because I had been having mild pain for months now and I know since 2010 that there’s a beginning of slipped disc at L5-S1 in my spine.

    MRI scanI know this is very common, but I cannot help thinking about the consequences of this health issue as an archaeologist. I don’t call myself a field archaeologist now, but I have been spending 2-3 months a year in the field for several years (2003-2010) and in 2009 I did that as a profession for a while (most of the other fieldwork was done with universities). Luckily enough, but without any actual plan, in 2009 I started accumulating some experience with ceramics and I took part in several campaigns doing that instead of digging. I like digging ‒ I know very well that I am far from being good at it, because I think too much and I’m not quite a fast “identify-clean-record-dig” type ‒ but I still like it a lot. And, the less I practice archaeological digging (10 sparse days last year), the more I idealise it as the real archaeology.

    Obviously, the idea that archaeology is restricted to fieldwork is wrong, but I’m only fortunate that I have a job and I am not forced to prove this truth.

    It hurts.

  • Foto libere nei musei, ennesima occasione persa

    Foto libere nei musei, ennesima occasione persa

    Nella bozza di decreto con DISPOSIZIONI URGENTI PER LA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE, LO SVILUPPO DELLA CULTURA E IL RILANCIO DEL TURISMO compare come è noto anche la voce Misure urgenti per la semplificazione in materia di beni culturali e paesaggistici, che contiene tre norme diverse, del tutto slegate tra loro e a mio parere sintomo di una incapacità politica di leggere il mondo dei beni culturali.

    Le tre voci sono le “foto libere”, un indebolimento (ennesimo) delle procedure di autorizzazione paesaggistica e la diminuzione da 40 a 30 anni del termine di consultazione per i documenti giudiziari in archivio. Sui punti 2 e 3 non ho niente da dire. Sul punto 1 ho qualcosa da dire, aggiungendo alle ampie riflessioni di Luca Corsato in cui è spiegato chiaramente che tutti gli usi più credibili e buoni delle immagini dei beni culturali (Wiki Loves Monuments, Invasioni Digitali, OpenGLAM, …) sono completamente esclusi da questo regime di piccole concessioni.

    Riporto per intero il passaggio in questione dalla bozza di decreto pubblicata da Tafter:

    Sono libere, al fine dell’esecuzione dei dovuti controlli, le seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:

    1) la riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose,né l’uso di stativi o treppiedi;

    2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte dall’utente se non, eventualmente, a bassa risoluzione digitale.”

    Quindi il vertice politico del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ritiene che lo studio, la ricerca, la libera manifestazione del pensiero, l’espressione creativa e (tremo al pensiero) la promozione della conoscenza del patrimonio culturale siano attività che devono essere primariamente svolte senza scopo di lucro. Ovviamente questo non esclude di esercitarle a scopo di lucro, ma solo con esplicita autorizzazione e, immaginiamo, pagamento. Si dichiara abbastanza chiaramente che:

    • l’espressione creativa basata sul più grande e magnifico patrimonio culturale del mondo (come dice chi non ha niente da dire) possa avere scopo di lucro solo se preventivamente autorizzata;
    • la promozione della conoscenza del patrimonio culturale, ovvero molto semplicemente far conoscere agli altri, al mondo, agli amici le cose belle che vediamo in giro, sia ugualmente sottoposta allo stesso regime di preventiva autorizzazione allo scopo di lucro;
    • che la ricerca sia alla pari con le altre attività, con buona pace delle decine e decine di imprese che fanno ricerca d’avanguardia sul patrimonio culturale, partecipando a bandi e progetti europei ‒ quasi unico paese in Europa in cui siano vigenti restrizioni di questo genere.

    Ma non è tutto, perché passando al punto 2), le “riproduzioni” diventano “immagini” (e quindi immaginiamo che le disposizioni del punto 2 non si applichino alle riproduzioni che non sono immagini, es. le stampe 3D, il testo di un documento copiato in digitale…). Queste immagini possono essere divulgate con qualsiasi mezzo, dalla stampa alla proiezione su maxischermo inclusa la pubblicazione su Internet, solo se nessuno può ulteriormente riprodurle. Evidentemente mancano le basi tecniche fondamentali per capire che quando Tizio pubblica sul suo sito web personale una foto, nel momento in cui Caio la visualizza sul suo computer o tablet ha già creato una copia identica del file sul proprio dispositivo. Inoltre, poiché di fatto la stragrande maggioranza di queste condivisioni avviene tramite social network, le immagini pubblicate sono automaticamente copiate sui server e da lì diffuse attraverso ulteriori copie sui dispositivi di tutti gli utenti che visualizzano le immagini. La stessa indicazione di “utente” è al tempo stesso fuorviante e priva di senso, poiché la maggior parte delle operazioni di elaborazione e trasferimento dei contenuti sono completamente automatiche.

    Passando dagli aspetti squisitamente tecnici a quelli di natura contrattuale, facciamo un esempio con Twitter per capire meglio l’assurdità del decreto.

    I termini di servizio di Twitter, al punto 5 recitano:

    Con l’invio, la pubblicazione o visualizzazione di Contenuti sui Servizi, o mediante gli stessi, l’utente concede a Twitter una licenza mondiale, non esclusiva e gratuita (con diritto di sublicenza) per l’utilizzo, copia, riproduzione, elaborazione, adattamento, modifica, pubblicazione, trasmissione, visualizzazione e distribuzione di tali Contenuti con qualsiasi supporto o metodo di distribuzione (attualmente disponibile o sviluppato in seguito).

    L’utente accetta che i propri Contenuti potranno essere condivisi, trasmessi, distribuiti o pubblicati dai partner di Twitter e si assume le eventuali responsabilità che possono derivargli qualora non abbia il diritto di fornire Contenuti per detto utilizzo.

    Di fatto, la bozza di decreto ci proibisce di pubblicare una immagine di bene culturale su Twitter. Altrettanto di fatto, questa norma viene descritta da tanti (esempio 1, esempio 2) come “libera selfie” o comunque favorevole proprio alla condivisione sui social network. Non capisco bene come sia possibile un fraintendimento così esagerato, sia da parte di chi ha prodotto questo testo sia da parte di alcuni commentatori entusiasti. Siamo, a mio personale parere, di fronte all’ennesima occasione persa di una vera riforma della normativa sulla riproduzione dei beni culturali. Questo fatto potrebbe sembrare strano alla luce della continua e ripetuta importanza strategica dei beni culturali come struttura portante per il rilancio dell’Italia, anche dal punto di vista economico e turistico. Di fatto, ai proclami politici non sembra seguire una adeguata analisi delle richieste del settore. Permane una pretesa di controllo totale, anche nei casi in cui palesemente non sussiste alcuna possibilità di immediata monetizzazione della riproduzione, come nel classico caso del museo in cui non si possono scattare foto ma non è nemmeno disponibile un catalogo stampato da acquistare. In più, viene dato un segnale debole alle istituzioni decentrate, che temo ci porterà dagli attuali bruttissimi segnali “Vietato fotografare” a segnali e/o volantini molto più prolissi in cui saranno spiegate le modalità in cui è possibile chiedere l’autorizzazione a fare una cosa normalissima: fotografare quello che ci piace.  E rimarrà quindi nella coscienza collettiva anche una distorsione del tutto inspiegabile, cioè il divieto/obbligo di permesso per scattare foto dentro il museo tout court, laddove la norma è specifica sui beni culturali e non riguarda minimamente il museo come struttura, spesso semplice contenitore di oggetti nonostante idealizzazioni teoriche lontane dalla realtà.

    Ciliegina sulla torta: viene concessa la possibilità di riproduzione a bassa risoluzione digitale, con sentite scuse ai possessori di un display retina. Non ci resta che far stampare i nostri selfie a 1200 dpi e distribuirli agli amici e “amici”. Che non potranno nemmeno rivenderli come carta straccia per liberarsene, ma dovranno eliminarli senza scopo di lucro.

  • I tracciati ICCD con la shell Unix e Python

    Il trasferimento delle schede di catalogo ICCD avviene usando file di testo chiamati tracciati. Può essere utile sapere come trattare questi tracciati con gli strumenti più semplici a disposizione in un ambiente Unix.

    L’argomento non è particolarmente eccitante e fortunatamente sembra destinato a diventare presto obsoleto con l’introduzione di un formato XML (peraltro, già obsoleto), ma qualche appunto tecnico può essere utile. I comandi della shell Unix permettono di ricavare informazioni di base e poi possiamo procedere con passaggi più elaborati in Python.

    Nel caso di un singolo file di tracciato, per contare il numero di schede contenute possiamo fare riferimento al paragrafo CD, obbligatorio, che introduce ogni scheda:

    $ cat tracciato.trc | grep -c -e "^CD:"
    1527

    La parte principale del comando è l’espressione regolare ^CD: che unita all’opzione -c di grep permette di contare il numero di schede (nel nostro caso, 1527). L’espressione regolare è necessaria per evitare di includere nei risultati anche altre parti del tracciato, inclusi altri campi (ad esempio DSCD), come mostrato nell’esempio successivo:

    $ cat tracciato.trc | grep -c "CD:"
    2680

    Ricaviamo un elenco dei numeri NCTN delle schede, usando un’espressione regolare analoga e il comando cut, indicando lo spazio come carattere delimitatore e selezionando solo il secondo campo:

    cat tracciato.trc | grep -e "^NCTN:" | 
    cut -d " " -f 2

    La lista prodotta dal comando sarà piuttosto lunga ed è meglio salvarla in un file a parte, usando una semplice pipe:

    cat tracciato.trc | grep -e "^NCTN:" | cut -d " " -f 2 > nctn.txt

    È importante controllare la correttezza dei dati. Secondo la normativa ICCD (sia la vecchia versione 2.00 del 1992, sia la nuova versione 3.00) il campo NCTN deve essere composto da 8 cifre, quindi al numero vero e proprio devono essere aggiunti zeri. In questo modo il numero 13887 diventa nel campo NCTN 00013887 e così via.

    Di fatto, dal punto di vista informatico, 00013887 non è un numero intero (che sarebbe invariabilmente memorizzato come 13887) ma una stringa di 8 caratteri in cui i singoli caratteri sono numerici (una considerazione analoga vale, ad esempio, per i CAP). Purtroppo spesso accade che questa prescrizione rimanga disattesa, perché il campo NCTN viene erroneamente interpretato come un campo numerico, ad esempio nella creazione di un database.

    Nel caso a cui stavo lavorando nei giorni scorsi effettivamente abbiamo un po’ di tutto: 5 cifre, 7 cifre, 8 cifre.

    Nella seconda parte di questo post ci trasferiamo in una sessione IPyhon (in inglese) dove vediamo come elaborare ulteriormente i dati che abbiamo salvato nel file nctn.txt per ottenere un elenco leggibile dei numeri NCTN: prosegui la lettura su nbviewer.

    Ricordo infine che una introduzione molto leggibile alla catalogazione ICCD è quella di Diego Gnesi Bartolani, che si può scaricare in PDF dal suo sito web.

     

  • #MuseumWeek: riflessioni a freddo

    #MuseumWeek: riflessioni a freddo

    Il mese scorso abbiamo celebrato la prima #MuseumWeek, una settimana di alta visibilità social per i musei di alcuni paesi, tra cui l’Italia ‒ tutta su Twitter. Se ne è parlato molto tra gli addetti ai lavori e mi sembra che tutti siano rimasti contenti. Anche io ho partecipato alla #MuseumWeek, occupandomi dell’account @archeoliguria della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria (dove lavoro). Siamo quasi in fondo alla lista dei musei italiani che hanno aderito ufficialmente.

    Già in corso d’opera c’erano state raccolte di dubbi, più sullo svolgimento pratico che sull’iniziativa in generale, come ha scritto Linkiesta. Qui vorrei raccogliere, un po’ per riflessione un po’ per mugugno, alcuni elementi di debolezza che ho colto durante la settimana e che mi sembrano importanti per tutte le prossime volte che parteciperemo a una iniziativa simile.

    Anzitutto, i tempi. La #MuseumWeek si è svolta dal 24 al 30 marzo 2014, e la notizia è comparsa sul blog di Twitter il 10 marzo, cioè due settimane prima. Per essere una iniziativa a cui dovevano partecipare centinaia di istituzioni in mezza Europa, il preavviso è stato scarso. Ma il motivo è presto detto: è stata organizzata completamente top-down, con date e tempistiche fissate in anticipo, fino alla definizione degli argomenti da trattare. Mi direte: è il bello del social, l’improvvisazione, e tu sei un bradipo! Vi rispondo che con 5 musei da coordinare distribuiti in tutta la regione, con una infrastruttura tecnologica non proprio all’avanguardia non è stato facilei bradipi quasi sempre fanno 4 o 5 cose diverse contemporaneamente e non dedicano l’intera giornata ai social media. I bradipi più bradipi sono stati quelli che già durante la #MuseumWeek mandavano e-mail chiedendo di inviare via e-mail dei messaggi di 140 caratteri che poi avrebbero provveduto a far pubblicare su un certo account istituzionale molto seguito…

    A chi si iscriveva mandando una e-mail a museumweek2014@gmail.com veniva inviata da Massimiliano D’Ostilio (della società TTA) una breve presentazione in cui si scoprivano i temi del giorno e le modalità previste di interazione. Si tratta secondo me di un documento banale, di taglio puramente promozionale, in cui sono stati elencati solo benefici e nessun rischio (l’ABC della progettazione, credo). Tanto per fare due esempi concreti: i musei italiani hanno corso il rischio di essere insultati per i noti problemi di gestione del patrimonio (durante quella settimana non credo sia successo, ma capita), mentre gli utenti hanno rischiato di trovarsi la timeline inondata di contenuti non sempre interessanti (e credo che in alcuni giorni questo sia successo davvero).

    La scaletta delle tematiche era molto adatta a musei grandi e tradizionali, ruotando in modo determinante intorno alle collezioni, le opere e i quadri, insomma non il massimo per piccoli musei e aree archeologiche. In effetti se rileggete il post di presentazione questa preferenza è chiara, dal calibro dei musei citati (e speriamo coinvolti nell’ideazione, almeno loro). Sopra ho scritto che questi sono appunti per la prossima volta che parteciperemo proprio perché la #MuseumWeek, bella ed entusiasmante, era una offerta da prendere o lasciare ‒ anche se qualche museo l’ha interpretata a modo suo.

    Ma insomma, tutti questi sono inutili mugugni perché la #MuseumWeek è stata una figata pazzesca e siamo stati nei trending topic per una settimana intera e abbiamo moltiplicato i follower e abbiamo avuto n-mila interazioni… forse. Siamo stati nei trending topic ma eravamo veramente tanti quindi era abbastanza scontato, oltre al fatto che Twitter potrebbe aver deciso di mettere la #MuseumWeek nei trending topic. Abbiamo moltiplicato i follower, indubbiamente, e per molte realtà piccole e agli esordi social questo è stato importante: @archeoliguria è passata nell’arco della settimana da 200 a 300 follower circa. Abbiamo avuto davvero molte interazioni, che non mi sono messo a contare, ma sulla qualità di queste interazioni ho qualche dubbio: anzitutto c’è stato un fortissimo senso di cooperazione tra le realtà medio-piccole e ci siamo fatti coraggio a vicenda, ritwittando i messaggi degli altri musei, commentando e rispondendo alle domande del giorno tra di noi, mentre il pubblico “esterno” ha interagito meno (potrei dire molto meno, se avessi dei numeri). Giornate come #AskTheCurator e #GetCreative hanno mostrato come il pubblico, anche quando si entusiasma, è abbastanza pigro o semplicemente non è abituato a parlare con il museo ‒ anche perché c’è una ampia fetta di popolazione “esperta” di archeologi, storici dell’arte, guide turistiche che forse ha partecipato più per senso di appartenenza che per curiosità verso qualcosa di nuovo. Generalizzando, mi dispiace invece notare come i grandi musei e poli museali abbiano scelto ancora una volta di rimanere in modalità broadcasting, sfruttando tutta la loro visibilità per mostrarsi al pubblico con cui non hanno minimamente interagito. Delle vere superstar. A proposito di superstar, è rimasto un po’ in sordina anche l’esercito sempre più numeroso dei personaggi parlanti che hanno iniziato a popolare Twitter dopo il successo dei due tamarri bronzi di Riace (a proposito: che fine avranno fatto?)

    Tutto da buttare? Assolutamente no. Ma non è tutto #oro quel che #luccica e non credo, come ha invece scritto @insopportabile, che Twitter abbia assolto al ruolo di un ministero della cultura organizzando la #MuseumWeek. Il successo lo abbiamo fatto noi ma credo che ci voglia ben altro per trasferire il successo social ai musei in carne e ossa: non dobbiamo vendere niente, ma raccontare tantissimo.

  • L’Italia in Africa: Pietro Toselli, Amba Alagi e il “solito” piatto in ceramica

    L’Italia in Africa: Pietro Toselli, Amba Alagi e il “solito” piatto in ceramica

    Quando due anni fa ho pubblicato su questo blog un racconto iper-dettagliato su alcuni piatti marchiati Società Ceramica Italiana non avrei mai pensato che quel racconto sarebbe diventato di gran lunga la pagina più visitata di questo piccolo blog. Era inaspettato, mi ha messo in contatto con altre persone molto più competenti di me sull’argomento, ma soprattutto mi ha incoraggiato a coltivare l’interesse verso le ceramiche di età contemporanea. Oggi vi racconto una storia un po’ meno personale ma abbastanza simile e altrettanto interessante.

    Parliamo di un piatto prodotto a Mondovì dalla manifattura Alessandro e Cesare Musso tra il 7 dicembre 1895 e il 1 marzo 1896. Non è molto frequente avere una indicazione cronologica così precisa per la produzione di un manufatto industriale di massa ‒ e si tratta di una cronologia indiretta ma rigorosa. Ma andiamo con ordine.

    La scorsa primavera ho riordinato per lavoro alcuni reperti in ceramica provenienti da uno scavo urbano effettuato a Oneglia tra 2010 e 2011 ‒ con una documentazione fotografica preliminare. Un lavoro molto semplice e ovviamente superficiale. Non potevano comunque sfuggirmi i due frammenti di questo piatto, che raffigurano una divisa militare e una approssimativa carta geografica con nomi chiaramente etiopi come Doba, Ender[a], Ezba, Amba. Su un frammento della tesa si legge “maggiore”. Vi basti che stavo leggendo Point Lenana proprio nello stesso periodo.

    Ho cercato un po’, ho trovato il libro Ceramiche patriottiche e militari dell’Italia contemporanea di Roman H. Rainero (edito nel 2008) e ho deciso che lì potevo trovare qualche notizia in più. Il libro non è molto diffuso ma l’ho trovato nella bellissima biblioteca dell’Istoreto di Torino. E nel libro ho trovato il piatto, ovviamente.

    In biblioteca all'Istoreto con il libro e le foto del piatto
    In biblioteca all’Istoreto con il libro e le foto del piatto

    Il piatto è stato prodotto dalla manifattura di Alessandro e Cesare Musso a Mondovì, come indicato nel marchio a inchiostro. Questa manifattura non compare nell’Archivio della ceramica italiana del ‘900, forse perché chiuse i battenti a fine Ottocento, ma è probabilmente collegata alle altre manifatture Musso di Mondovì. Il piatto porta una decorazione dedicata (stranamente) alla commemorazione di un evento negativo per l’Italia: la disfatta di Amba Alagi durante la guerra abissinica, in cui perse la vita il maggiore Pietro Toselli (a cui sono intitolate vie in moltissime città d’Italia, non ultima Siena).  La data di produzione è necessariamente compresa tra il 7 dicembre 1895 (data della battaglia) e il 1 marzo 1896, cioè la data della sconfitta ben più disastrosa di Adua, che compare invece in posizione defilata nella approssimativa carta geografica alle spalle di Toselli. Nel frattempo c’era stato anche l’assedio di Macallè, celebrato in altri due piatti della serie “L’Italia in Africa” molto simili anche nella decorazione.

    Preciso subito che non conosco il valore di mercato di questo piatto, nel caso in cui ne possediate uno intero (dubito che in frammenti sia di interesse per i collezionisti). Ho l’impressione che non ve ne siano molti esemplari in circolazione, probabilmente a causa del breve periodo in cui è stato prodotto, ma posso sbagliarmi.

    Da archeologo, lasciando da parte il piatto intero e tornando ai frammenti, devo sottolineare che questo reperto va considerato nel suo contesto di rinvenimento, in cui erano presenti altri oggetti prodotti a Mondovì nello stesso periodo. È certamente molto raro trovarsi di fronte a un reperto ceramico con una datazione così ristretta, che spesso è rara anche per una moneta. Spero ovviamente che tutto il contesto venga pubblicato (per chiarezza: non me ne sto occupando), sarà molto interessante e darà una prospettiva meno ristretta alle osservazioni su che ho raccolto qui.

    D’altro canto, non posso non domandarmi che significato ha avuto questo piatto per chi lo ha comprato e posseduto: persone senza nome ma certamente affascinate dall’impresa coloniale italiana, come tante altre in quegli anni. Certamente non tutti condividevano questo entusiamo, né era da tutti acquistare questi oggetti celebrativi da esporre nelle proprie case. Negli stessi anni sempre a Mondovì si producono oggetti in ceramica tesi a raffigurare gli etiopi con fattezze mostruose e animalesche, come a rafforzare l’idea della loro inferiorità. Sarà poi il regime fascista a condurre per alcuni anni l’Etiopia sotto il dominio italiano.

    Riporto alcuni brani del libro, ricordando che se siete interessati a questo argomento potete comprarlo direttamente dal bookshop del Museo Storico Italiano della Guerra o cercarlo in biblioteca.

    La descrizione del piatto (pagina 95):

    Pietro Toselli ad Amba Alagi. La prima guerra d’Africa inizia con il tragico scontro di Amba Alagi […] Immediatamente l’emozione diventa l’occasione per un piatto celebrativo della speciale serie “L’Italia e l’Africa” dove compaiono la figura del Toselli (chiamato erroneamente Pier) sullo sfondo di una incerta carta geografica della regione attorno all’Amba Alagi e, nella tesa, i nomi dei due capi militari italiani in campo: il governatore dell’Eritrea, generale Oreste Baratieri, ed il comandante delle regie truppe in Africa, maggior generale Giuseppe Arimondi. E, per la salvezza dell’Italia, il famoso “Stellone d’Italia”. La data della produzione del piatto si può  situare esattamente tra il 7 dicembre 1895 ed il 1° marzo 1896, data della sconfitta di Adua, località che nel piatto compare senza evocare la battaglia che ancora doveva avvenire.

    Piatto di ceramica, manifattura Alessandro e Cesare Musso (Mondovì), diametro 24 cm [MGR FO 98]

    La serie “Italia in Africa” fu comunque un successo effimero (pagina 97):

    La serie ”Italia in Africa”. Il positivo esito di vendita dei piatti di Toselli e di Galliano indusse la manifattura ad inaugurare una vera serie di “piatti coloniali” dell’Italia, nella speranza di proseguire le fortunate produzioni. Ma questo progetto non andò molto avanti, forse per le infauste sorti della guerra, e così lo speciale marchio della serie di Toselli e di Galliano su “L’Italia in Africa” non annoverò la produzione di altri piatti.

    Le manifatture ceramiche italiane sono schierate con le autorità (pagina 17), e questo fa riflettere sull’estrazione sociale degli acquirenti di questi piatti:

    le produzioni italiane appaiono stranamente diverse da quelle rivoluzionarie francesi in quanto non celebrano mai eventi “sgraditi” alle autorità e a una certa parte dell’opinione pubblica. […] si trovano celebrate persino sconfitte clamorose (Amba Alagi, Macallé) ma mai momenti di lotta dell’“altra” Italia, quella che pareva non degna di fare storia ufficiale.

    Alla prossima puntata.